Gli operatori tra più fuochi, come giocarsi il proprio ruolo al meglio I contesti: dal disagio dei minori al disagio degli operatori

  1. Operatori delusi e scoraggiati

L’espressione delusa della psicologa assunta come operatore in una cooperativa che deve fare i conti tra le proprie aspettative tradite, il mandato e il coinvolgimento personale da una parte e la realtà di tutti i giorni dall’altra; le lacrime dell’educatrice che non riesce a evitare che un bambino venga tolto alla famiglia dai servizi sociali che hanno lavorato senza informarla; lo sguardo sperso di un clinico che non comprende l’iter di una famiglia in via di separazione nella difficile relazione tra tribunale, regole di affido e possibilità evolutive; le speranze frustrate di molti operatori pieni di buona volontà ….
Tutti i giorni capita di incontrare operatori delusi e scoraggiati per la difficoltà di vedere riconosciuto il loro ruolo e di trovare un lavoro permanente e, più ancora, per la fatica di acquisire una voce competente nell’interazione tra tante figure che si succedono e si affiancano, ma raramente si ingranano tra loro su una stessa situazione.
Consapevole della difficoltà del lavoro sociosanitario, soprattutto in questo momento storico1, vorrei individuare alcuni spunti di riflessione per poi accennare a un possibile percorso ottimale per lavorare con minor “fatica” e con un ritorno.

1.1. Lo smantellamento dei servizi in atto

In Italia sta avvenendo un vero e proprio smantellamento dei servizi della salute mentale pubblici, che vengono svuotati di operatori e di significato. Oltre alle spiegazioni economiche, a mio parere tre altre ragioni rendono il lavoro integrato a volte impossibile:

  1. l’incomprensione da parte di chi è deputato a organizzare i servizi della differenza epistemologica del lavoro psichico rispetto a quello sanitario;
  2. la progettazione dei servizi e dei progetti in maniera lineare e semplice anziché complessa ab initio;
  3. la contrapposizione anziché l’integrazione tra ottiche e posizioni diverse tra operatori che lavorano insieme.

La conseguenza sempre più frequente è quella di servizi che partecipano alla costruzione della cronicità e di esiti indesiderati. L’individuazione di un danno in un braccio rotto è facile, c’è il corpo materiale, c’è qualcosa che non è come dovrebbe essere; l’immaterialità della mente crea una serie di problemi di oggettivizzazione sia dei temi su cui lavorare sia rispetto al rischio costante di un adeguamento alle norme culturali tacite, omeostatiche, normalizzanti e ortopediche.
Troppo spesso si accomuna la psicologia alla medicina2. La psicologia è una prassi differente. Sua premessa eterogenea rispetto a quella dei medici e dei magistrati è l’ineluttabilità del “non sapere” come posizione inevitabile, conseguenza del lavorare su situazioni impalpabili e non oggettive che obbligano a prendere decisioni che sono indeterminabili e indecidibili3. Mentre alcune altre discipline sono basate su leggi definite a priori e su prassi consolidate per cui più si sa più si è competenti, nel mestiere degli psicologi è necessario tollerare l’incertezza e avere la capacità di avventurarsi in territori inesplorati. Premessa del lavoro socio­psico-educativo, sia per psicologi che per educatori, psichiatri, assistenti sociali e operatori generici non è quella di agire su una realtà reale quanto piuttosto la riscrittura di copioni e la decostruzione di processi che implementano circoli viziosi. Noi siamo costruttori e gestori di contesti oltre che creatori di senso e complessificatori di significati, certo non archeologi della psiche, né la psiche è un substrato oggettivo e cosale dal quale far emergere dati certi.
L’operatore sociosanitario non sa di più e meglio del cliente: le sue teorie, ipotesi e narrazioni non sono più vere; sono plausibili esattamente come quelle degli altri con i quali partecipa all’analisi delle situazioni. Come ci spiega Marco Bianciardi4 quello che le differenzia è il fatto che le ipotesi del clinico dovrebbero rimanere a un ordine logico differente rispetto a quelle dei clienti: non al livello dei contenuti ma a quello dei processi che organizzano la conoscenza; non al livello del conoscere (operazione di primo livello) ma a quello del conoscere la conoscenza (secondo livello). Mentre il cliente si presenta con una narrazione che crede essere una descrizione oggettiva della realtà, il clinico propone ipotesi alternative, senza ritenerle uniche e veritiere, allo scopo di verificare la loro utilità e la loro coerenza, al fine di complessificare la percezione del mondo e costruire una conversazione che possa evolvere e che sia perturbativa. Diventa importante sapere che si lavora da una posizione di sapere plurima: ci sono cose che sappiamo (da cui emergono le ipotesi che facciamo), altre che non sappiamo (la consapevolezza della nostra ineludibile ignoranza), cose che sappiamo di sapere (da cui emergono riflessività e consapevolezza) e sappiamo di non sapere (che danno origine alla nostra curiosità); ancora, ci sono cose che non sappiamo di non sapere (che portano alla collusione, alla risonanza) e che non sappiamo di sapere (che scaturiranno come esperienza intuitiva). Il clinico è quindi la persona che sa di sapere e sa di non sapere, in quanto ogni descrizione è soggettiva, parziale, riduttiva, auto-referente e temporanea.
Diventa importante tollerare il dubbio e l’incertezza. Il clinico deve soprattutto essere consapevole della possibilità di non sapere di non sapere, considerare quindi inevitabili alcune sue zone cieche e la possibilità costante di esiti indesiderati. Questo implica fare interventi insaturi, dare suggestioni, non credere troppo alle proprie ipotesi, aprire possibilità anziché limitarle. Significa sapere che anche quando le persone arrivano con un problema definito o quando un contesto propone un bisogno specifico, la domanda emerge dal processo di negoziazione che conduce alla costruzione di una cornice condivisa.
È necessario che non ignoriamo la nostra ignoranza e che ci rendiamo conto che:

  1. non tutte le informazioni sono alla nostra portata;
  2. possiamo conoscere un sistema solo parzialmente ma è plausibile che risuoniamo con esso;
  3. la collusione nella quale cadiamo è inevitabile e può essere utilizzata per comprendere di più;
  4. rischiamo costantemente la possibilità di creare cronicità, soprattutto se partecipiamo alla costruzione della “gravità/ pericolosità” della situazione con la quale ci stiamo confrontando;
  5. il processo che instauriamo può far star male (rischio del rischio iatrogeno, iatreia = cura, gignomai = nascere, che nasce dalla cura) anche quando l’intervento è condotto nel migliore dei modi possibili5;
  6. gli esiti indesiderati, potendo emergere anche da un intervento condotto nel migliore dei modi, devono sempre essere presi in considerazione come possibilità in modo da intervenire mutando noi stessi e creando un processo evolutivo attraverso la ridefinizione adattativa del sintomo e operazioni sulle operazioni.

1.2. Il mandato dei servizi “esperti” per i “malati”

Un altro costrutto sociale reificato costantemente che ha un valore di forte coesione sociale è la dicotomizzazione rigida e oggettiva tra sani e malati, tra esperti e incompetenti.
Triest6, rifacendosi a Bion7 e riproponendo quanto ci avevano già detto Foucault, Satz e Illich, prende in considerazione le relazioni inconsce che si formano tra le organizzazioni che si occupano di salute mentale e la società in cui sono inseriti. Esplora il ruolo di “mantenimento” assegnato dalla società a specifici gruppi di lavoro specializzati (l’esercito, le chiese, l’aristocrazia) nello sforzo di prevenire/evitare lo smembramento della vita quotidiana e di sbarazzare la società del pericolo di essere dominati dall’assunto che il gruppo rappresenta (gli assunti di base diventano pericolosi in proporzione ai tentativi fatti di tradurli in azioni). Le organizzazioni che ruotano attorno alla salute mentale, sostiene l’autore, vengono investite del compito di occuparsi dei devianti e finiscono per operare sotto un assunto di base unico, quello dell’inclusione/esclusione. Lo scopo è quello di tener rinchiusi gli “altri” (coloro che manifestano sintomi e si discostano dalle norme) e rassicurare/ricompattare i cittadini che si definiscono “normali” proprio attraverso questa prassi di esclusione. Collegando gli assunti di base alle dinamiche interne delle organizzazioni che si occupano di salute mentale e all’immagine degli operatori, Triest sostiene che ci sia un paradosso costitutivo di tutto il lavoro nella salute mentale: le organizzazioni connesse alla salute mentale e i loro operatori portano a termine il loro scopo sociale solamente a patto che non raggiungano risultati soddisfacenti nella missione di riabilitare i “matti” e di non reintegrarli nella società.
Il mandato cui gli operatori si trovano a rispondere è quindi molto ambiguo e ambivalente e la posizione dei “malati” come distanti e diversi da chi cura crea una dicotomia che ostacola il processo stesso di presa in carico e una reale collaborazione nel processo. L’unica possibilità di uscita dalla situazione attuale è, secondo Aldo Bonomi8, l’alleanza tra la comunità di cura (gli insegnanti, gli operatori di salute e soprattutto quelli di salute mentale, per la loro necessità di confronto con l’inclusione e l’esclusione) e la comunità operosa (le imprese, il lavoro) impedendo che quest’ultima si allei con la comunità rancorosa (quella comunità che si crea con il gossip televisivo quotidiano, quella del rifiuto e della critica).
Un altro modo per uscire da questo paradosso costitutivo potrebbe essere proprio quello di chiedere aiuto ai nostri utenti e lavorare con loro anziché su di loro, implementando la fiducia nelle loro ipotesi e nelle loro risorse, ma questa possibilità è tutta da costruire.

1.3. Le divaricazioni fra lavoro sociale e sanitario e terzo settore

I lavori sociale e sanitario rischiano di divergere sempre più e il ricorso al terzo settore (cooperative che non hanno una specificità né sociale né sanitaria e che non assumono ma coinvolgono attraverso contratti a termine9) crea percorsi sempre diversi in cui agli operatori vengono chiesti salti mortali: contratto generico e lavoro come professionista, azzeramento della propria professionalità, assenza di figure cardine fondamentali per la delicatezza del lavoro richiesto che risultano solamente sulla carta ma che non vengono istituite (vedi il case manager, il supervisore), operatività nei contesti dove non è possibile per l’improvvisazione del lavoro, equipe con professionalità diverse che devono operare nello stesso modo, doppie/triple committenze, contratti capestro, lavori impegnativi e coinvolgenti pagati a babbo morto, mancata coordinazione tra figure professionali diverse … Questo crea una semplificazione degli interventi e della lettura dei contesti che, rispondendo a una logica meccanicistica, si allontana sempre più dalla professionalità “psi”, la travisa e ne tradisce il significato intrinseco.
Quegli operatori che lavorano coi pazienti con un modello semplice in un servizio che è stato pensato ab origine in maniera semplice, intervengono su qualcuno in un’ottica sommatoria (aggiungere interventi e operatori, credendo che questa sia una soluzione possibile quando invece contribuisce a considerare il problema “grave” e la situazione “compromessa”). Aiutano a risolvere un problema oggettivandolo, decodificandolo all’interno di categorie definite a priori e chiamandosi fuori dal problema. Interventi di questo genere per sommatoria non fanno altro che incistare la situazione, veicolare un messaggio di patologia e costruire il portatore di sintomi come colui/colei che è malato, matto o molto danneggiato.
Mi ricordo invece Gianfranco Cecchin il quale, di fronte ad un paziente che durante le sedute peggiorava, decideva di allungare il tempo tra un incontro e l’altro, spiegando all’interessato che forse insieme avevano messo in atto incontri troppo perturbativi. Che messaggio di competenza e fiducia inviava al suo interlocutore circa le sue risorse e la sua possibilità di “resistere” al peggioramento! Che fiducia nel processo passava, non permettendosi di dubitare della soluzione messa in atto e come rimaneva “fermo” nella certezza prognostica di una possibile evoluzione per il meglio! La psicologia come prassi contestuale non a caso impone di mettere in comune premesse sul contesto e sul progetto e condividere possibili percorsi, anziché agire sull’altro da una posizione privilegiata ed esterna.
Ho presente contesti in cui la fiducia nelle persone e nell’evoluzione dei problemi fa sì che il lavoro “psi” sia prevalentemente una coordinazione di una coordinazione di premesse e progetti anziché l’indagine sempre più intrusiva su “pensieri pirata” e vissuti “disomogenei”, ricercati tra le orecchie dell’altro.

1.4. L’egemonia di una logica categoriale e riduttiva

Anche le categorie che gli operatori utilizzano sono intrise della cultura e delle pratiche occidentali sia esplicite che tacite. Troppo spesso ci si attesta sulla patologia anziché sulle risorse degli individui e dei sistemi in toto; troppo spesso si fa riferimento a categorie normative già presenti nella società, allontanando la possibilità di soluzioni alternative e di processi nuovi. Troppo spesso si utilizzano categorie di giudizio assolutamente dicotomiche: o buoni o cattivi, onesti o disonesti, perdendo la possibilità di tirar fuori dagli altri anche le loro qualità nascoste.
È rischiosa l’egemonia di una logica categoriale e riduttiva. Come operatori della psiche non abbiamo il compito di identificare malattie ma siamo chiamati a ragionare sui processi che emergono dalla commistione di problemi e risorse, all’interno di un contesto definito. Ci sono anche altri modi di considerare i problemi che ci vengono portati che hanno a che fare con la descrizione, con l’uso di concetti descrittivi possibilmente psicologici e basati sulle relazioni all’interno dei contesti e delle pratiche sociali (con la consapevolezza costante di quali stiamo utilizzando). Servono in modo dimensionale per valutare come influiscono nell’esperienza di sé e del mondo, come sono, e/o sono stati, adattativi e per mettere in atto processi che coinvolgano la comunità più estesa. La posizione dimensionale rispetta maggiormente la soggettività, va verso la singolarità del funzionamento della persona. La salute mentale ha a che fare con lo sviluppo e la realizzazione di sé, avere sintomi è parte del processo di salute, avere un pattern di personalità serve per crescere. La domanda da farsi è “cosa è successo” ma non solo nella realtà e nella storia del cosiddetto paziente ma anche nella comunità culturale allargata e nel tempo della cura, cioè da quando il problema è stato portato allo scoperto e gestito con gli operatori preposti.
Luigi Boscolo è solito affermare (come dargli torto?) che la cronicità emerge a seguito di più operatori che etichettano in modo simile e categorizzano la persona entro confini rigidi dai quali non riesce più ad affrancarsi.
Il cadere nella trappola della malattia e della gravità del sintomo, la mancanza di coordinamento tra figure professionali, il rischio di entrare in risonanza e riprodurre dinamiche uguali a quelle vissute già in precedenza, la mancanza di un case manager che coordini gli interventi e tenga in testa gli accadimenti e la strategia di intervento, l’organizzazione dei servizi basata spesso sull’urgenza e sulla scarsa progettualità condivisa e molto altro ancora, fanno si che alcune se non molte situazioni cliniche rischino di diventare croniche non per la gravità della situazione stessa ma per come vengono gestite. Anche operatori singolarmente molto bravi perdono di efficacia all’interno di un’organizzazione che non tiene conto della necessità di costruire una strategia condivisa e di mettere in comune le premesse adattative e processuali che sono in campo.
Solo un’ipotesi e un intervento che emergano dall’embricazione di tutte le convinzioni in gioco possono risultare evolutivi, altrimenti si instaurerà una lotta di potere (spesso tacita) che porterà il paziente designato a venir preso in mezzo e a poter rispondere soltanto con i sintomi (di più dello stesso). Diventa necessario per evitare la cronicità passare da un intervento inteso come tecnica all’embricazione dei significati presenti nel contesto determinato dal problema, sottolineandone le potenzialità.
Gianni Rotondo10 sostiene addirittura che i pazienti cronici sono utili ai servizi in quanto costituiscono la continuità tra teorie cliniche e terapeutiche che mutano ogni volta che cambia il primario. Le scissioni all’interno del servizio pubblico vengono recuperate e ricomposte nel singolo utente, a suo discapito in quanto rischia di non trovare più la coerenza propria e della cura, così come privi di coerenza sono stati spesso gli interventi che sono stati proposti nel tempo, uno di seguito all’altro, per sommatoria e seguendo una logica del servizio non rispettosa della persona. I pazienti diventano necessari a costruire la continuità e utili come collanti della storia del servizio anziché essere gli operatori utili ai pazienti!

1.5. Le prassi solitarie di lavoro

Il mito della psicoterapia ha favorito prassi di lavoro uno a uno e la fantasia che le persone siano sane o malate, turbate psichicamente o perfettamente funzionanti. Il lavoro socio-psicologico è invece, a mio parere, la co-costruzione di contesti in cui ciascuno possa operare al meglio. Basaglia11 e Psichiatria democratica hanno proposto alla fine degli anni Sessanta cambiamenti radicali, rompendo le strutture di potere (bastavano un certo numero di letti occupati per diventare primario di un padiglione manicomiale). Si è trattato certamente di una rivoluzione che però non ha avuto un’evoluzione continuativa: la forza di alcuni modelli dell’umano, la prassi duale come intervento più “comodo”, le scuole private che insegnano privilegiatamente la psicoterapia, la complessità del sociale, le ragioni della crisi economica e dei tagli finanziari (il nemico diventa comodamente esterno, diventa qualcun altro in un luogo irraggiungibile) hanno fatto sì che il paradigma individualistico non fosse sconfitto ma solo temporaneamente messo da parte.
Anche i centri di salute mentale, nati coll’idea di contaminarsi col sociale, sempre di più hanno rischiato con l’entrata degli psicologi di diventare succursali di centri privati, favorendo attività di secondo livello (dagli anni Ottanta a oggi) anziché favorire la sperimentazione di prassi alternative, contaminate col sociale e integrate nel territorio. Ne è una dimostrazione la rinuncia a lavorare in equipe multidisciplinari, che prima era stata una vera risorsa.

  1. Il percorso verso processi di co-costruzione con gli utenti e fra gli operatori

Nel caso di un percorso sociosanitario così come nella psicoterapia, non è solo ciò che viene scelto come “terapeutico” ad avere degli effetti “terapeutici”, ma anche ciò che può risultare di contorno o apparire del tutto inutile. Le parole e le azioni che facciamo e che non facciamo costruiscono la danza e possono portare o non portare agli effetti desiderati, proprio in virtù del fatto che, in un processo di co-costruzione, non sono solo io operatore a determinare gli effetti di ciò che metto in atto ma saranno anche e soprattutto i miei interlocutori (sempre plurali) ad attribuire un “senso” a ciò che viene espresso in parole e azioni, retroagendo sulla base di questo “senso” attribuito.
Alla luce di quanto affermato, o ci si dichiara sconfitti, disperando di poter intervenire, o ci si pone nella “posizione” di intendere l’intervento come un continuo e costante provvedimento di secondo ordine durante il quale l’operatore si interroga costantemente su quanto sta accadendo, sia a livello delle proprie premesse generali, sia a livello delle azioni concrete (ad esempio la scelta di una domanda, più che di un’altra, di un percorso o di una decisione alternativa), come sostiene Bianciardi12.
Tra le “azioni concrete” possiamo annoverare quegli interventi che si traducono nelle “parole” spese, nelle domande fatte nel corso della conversazione terapeutica ma non solo; anche i progetti pensati e proposti; e, ancora, bere il the insieme (identificare un oggetto transizionale) oppure sporcarsi le mani usando immagini, metafore e storie inventate nel qui e ora dell’incontro e nello spazio co-costruito oltre a compiti a casa con gli utenti e riflessioni tra operatori: operazioni terapeutiche tanto quanto una conversazione “tradizionale” con l’utente.
La danza relazionale che include tutti i presenti è ineludibile. Chi ha partecipato all’individuazione di un sintomo? Chi alla sua reificazione? In che modo gli operatori che vi hanno partecipato hanno colluso col problema, lo hanno ingigantito o hanno cercato di decostruirlo? Quali contesti evolutivi sono stati co-costruiti al fine di rendere la situazione processuale anziché statica? Quali aspetti sono stati compresi all’interno di un evento reale e quali disconosciuti? Ma ancora di più, quali traumi ha rinforzato il lavoro socio-sanitario …? Non esiste nel lavoro con gli utenti un intervento lineare né un solo livello di osservazione/azione, lo continuo a ripetere. Mai. La ricorsività, le doppie posizioni diventano garanzia di circolarità e processualità. Ci troviamo invece con operatori organizzati dall’urgenza in contesti in cui sono stati messi a lavorare su una categoria di persone, senza una sufficiente riflessione sulle premesse del contesto e sull’operatività stessa.
Colludere, secondo Laing13, significa connettersi a un sistema, fare un accoppiamento strutturale con esso, co-costruendo regole condivise che mantengono lo status quo. Un’operazione inizialmente ineluttabile al fine di venire accettati la necessità di confermarsi reciprocamente che Laing definisce “un inganno condiviso”, dove ciascuno accetta di stare al gioco dell’altro, attivando un processo di conferma reciproca. I processi collusivi sono fantasie agite all’interno della relazione, in un contesto dato, quando gli attori hanno scarsa consapevolezza di come il sistema funziona, nel desiderio quasi inconsapevole e sempre attivo di adattarsi a esso. Colludere significa anche cadere nelle trame di un sistema e ragionare secondo la logica del sistema stesso. Perdere quindi il proprio potere perturbativo e risuonare sulle stesse note che fanno risuonare il sistema.
Si tratta di un momento di cecità: non sapere di non sapere porta a mettere in atto operazioni nella convinzione che possano essere perturbative quando invece sono troppo sintoniche con il clima interno e quindi diventano solo rumore e non producono nessun cambiamento. Non cadere nel gioco che ci viene presentato ma neppure venir espulsi, la difficoltà sta nel rapporto tra riconoscimento e perturbazione, la posizione necessaria quella di essere contemporaneamente dentro e fuori.

  1. Situazioni critiche e nuove modalità di lavoro

Il clinico prende in carico problemi soggettivi e vi partecipa con la propria soggettività. Premessa fondamentale di questo delicato processo diventa la formazione degli operatori sociosanitari al fine di implementare la competenza professionale e la capacità di essere persone integre e consapevoli di sé.
Gli operatori formati in maniera non specifica, insistendo sulla patologia del singolo14 si difendono dall’ansia oggettivando gli utenti o attuando un meccanismo di splitting (sono totalmente buoni e meritevoli di essere salvati oppure totalmente rompiscatole e inguaribili). Troppo poco si riflette con gli operatori su quanto siano investiti delle proiezioni e da relazionalità transferali e contro-transferali di colleghi e utenti (anche di capi), da fenomeni di rispecchiamento che non hanno valenza neutra e che subiscono in ogni luogo di lavoro.
In Italia la prassi di apprendimento basata sull’apprendimento nel fare (learning from doing di anglosassone tradizione) è presente, naturalmente, senza venir esplicitata come modalità di estremo valore e senza che ci si rifletta abbastanza sopra; così manca una riflessione esplicita sugli aspetti non verbali – gesti, azioni e altri significanti – delle situazioni di lavoro15. Si dovrebbero istituire nuove modalità di training più attente agli aspetti concreti e a una lettura contestuale degli eventi. Aspetti individuali, gruppali, organizzativi e sociali dovrebbero diventare insegnamenti trasversali ai percorsi formativi delle diverse categorie anziché risultare processi favoriti o ignorati a seconda degli indirizzi d’elezione. Così si dovrebbero aumentare le funzioni riflessive e ci dovrebbe essere una maggiore attenzione allo sviluppo personale (intuizione, uso di sé, multidimensionalità, costruzione dell’autorevolezza).
È arrivato il tempo che dovremmo decostruire molti dei percorsi formativi messi in atto fin ora per riflettere su un cambiamento delle premesse e conseguentemente dei percorsi stessi. Il rapporto tra prassi routinaria e spazio per nuovo apprendimento andrebbe ricalibrato per includere:

  1. una maggiore attenzione alle dinamiche correlate al senso di sé (un più equilibrato rapporto tra attività pensare/fare con un’insistenza sul secondo aspetto, un’indagine emotiva più approfondita e personale, la riflessione sulla tensione tra bisogni individuali e gruppali, la gestione dei conflitti e del controllo, apprendere una prassi basata sul rispetto e sulla condivisione);
  2. la capacità di identificare i giochi in atto;
  3. l’analisi dei processi paralleli tra prassi istituzionale e cosa accade tra/negli/con gli utenti;
  4. una costante attenzione agli aspetti contestuali. Vediamo nel dato esperienziale alcune di queste modalità.

3.1. La valutazione della capacità educativa

Il tribunale invia una coppia molto conflittuale al consultorio di zona con la richiesta di stabilire le modalità abitative e di frequentazione della figlia unica di circa quattro anni. La richiesta è quella di una valutazione delle due figure genitoriali e della loro capacità educativa. Il padre è molto manipolativo e influenza le figure apicali del servizio attraverso le sue amicizie personali, infondendo sospetti sulla salute mentale della moglie e sulla sua capacità genitoriale. Il caso arriva al consultorio già inquinato da un incrocio di telefonate tra responsabili (del distretto e del servizio) e con una certa scia di urgenza e delicatezza. Il caso è poi già seguito dal Materno Infantile a seguito di problemi comportamentali e di sonno della piccola, triangolata tra i due. Il medico del distretto chiede agli operatori del consultorio di sua iniziativa di fare una valutazione psicologica anche della figlia (più è meglio, secondo l’ottica medica; più è peggio, in un’ottica di salute mentale, in quanto si rischia sempre l’etichettamento e la patologizzazione).
Gli operatori che si occupano del caso potranno difendere la loro professionalità solamente unendosi e collaborando tra loro, ridefinendo la domanda del tribunale, stabilendo un contatto tra servizi e andando a contattare personale il giudice preposto e rinegoziando la domanda e il mandato. Dovranno resistere insieme alle azioni e contro-reazioni della coppia, manipolativa e conflittuale e cercare insieme un modo per “liberare” la ragazza dal gioco interattivo e molto patologico dei genitori. Un caso in cui sono implicati operatori di strutture diverse ha bisogno del pensiero condiviso altrimenti lo spezzettamento crea iatrogenia certa.

3.2. Il trattamento delle dipendenze

Gli operatori di una cooperativa che non si era mai occupata di dipendenze sostituiscono gli operatori andati in pensione di un Sert con una lunga tradizione. Il lavoro prima era coordinato e collegiale, le premesse erano diventate comuni dopo una lunga prassi di discussione sui casi in equipe. Accedono al servizio sia pazienti con doppia diagnosi e una lunga storia di dipendenza che ragazzi che sono stati fermati dalla polizia per essere stati trovati alla guida con un tasso alcolico maggiore di quello di legge o per possesso di sostanze (la legge attuale è, a mio parere, troppo severa e non distingue tra tipologia di dipendenze, con la conseguenza di creare più danni di quelli che tenta di risolvere).
Gli operatori giovani che sono intervenuti nel Sert non hanno avuto tempo di riflettere sul fenomeno e la loro doppia committenza (lavorano per il Sert ma sono assunti o hanno un contratto con una cooperativa) fa sì che rischino di sentirsi presi tra due fuochi e che la dimostrazione della loro professionalità diventi la loro preoccupazione precipua. Se, nel tentativo di mostrare la loro capacità di risposta, i giovani operatori rispondono alle due tipologie di pazienti nello stesso modo (con veemenza, trattando anche le situazioni occasionali come pericolose e disfunzionali e i giovani malcapitati come futuri tossici, già dipendenti) creeranno un danno sia agli utenti che alla struttura. Rispetto ai giovani si insisterà sulla patologia anziché sulle risorse, rispetto alla struttura si perderà la sua possibile valenza evolutiva; in ambedue i casi non si sarà in grado di operare una necessaria promozione della salute.
Di fronte a categorie a rischio c’è il bisogno di operatori ben strutturati nel loro contesto e ben consapevoli di quello che stanno facendo, consapevoli della storia del contesto in cui sono inseriti e dei ruoli, delle differenze, delle premesse condivise (non si lavora mai abbastanza sulle premesse condivise!).

3.3. La “cura” degli psicotici

Psicologi che lavorano in una comunità per psicotici con il ruolo di operatori si trovano in dubbio su quando proporsi come professionisti della psiche e quando uniformarsi al lavoro sulla quotidianità. Non possono certo vestire i due panni in maniera implicita, decidendo soggettivamente quando si comportano come né svolgere contemporaneamente le due funzioni. Rischierebbero di squalificare il lavoro psicologico oppure di invadere la quotidianità di psicologismi.
Devono pertanto definire un luogo in cui si entra per riflettere su quanto accade e dove si utilizzano le categorie psicologiche e non cadere nella trappola tesa “involontariamente” sia dai ragazzi che dai colleghi di “sporcare” il contesto quotidiano proponendo interpretazioni e collegamenti psichici.

3.4. Il progetto di smantellamento dei servizi e i pericoli che ne derivano

La pressione all’interno dei servizi, invidie, fatica e incomprensioni, paghe irrisorie che dequalificano il lavoro, l’organizzazione basata prevalentemente sull’urgenza, squalifiche dall’esterno (politiche che non tengono conto del punto di vista degli operatori, progetti accettati sulla base di chi li propone anziché di una progettazione coordinata del territorio, mancanza di risorse, dirigenti che impongono processi anziché concordarli), routine … il progetto di smantellamento che è in atto deriva dalla politica nazionale e regionale.
Questa tende in maniera demagogica a:

  1. privatizzare sempre più le cure;
  2. non pianificare la salute mentale a livello globale ma proporre nicchie e doppioni di progetti, in una rincorsa tra strutture a finanziare proprie enclave di eccellenza;
  3. svuotare di significato la difficile operatività attuata sul campo;
  4. non riconoscere l’esclusivo percorso mentale e la sua “delicatezza” e particolarità (se si pensa che i dentisti senza un’altra specifica formazione possano lavorare con i pazienti affetti da disturbi di personalità si è trasceso il significato del malessere psichico. Così come avviene coinvolgendo in colloqui con casi “delicati” tirocinanti appena usciti dall’università, senza nessuna esperienza);
  5. aumentare sempre più il lavoro burocratico per gli operatori;
  6. minacciare perfino a tratti di riaprire gli ospedali psichiatrici.

In questa situazione, come ho già accennato, gli operatori corrono molti pericoli:
– rispondere principalmente al bisogno e all’urgenza;
– non farsi carico in maniera complessiva di una situazione ma rispondere singolarmente coinvolgendosi uno alla volta, per sommatoria;
– sommare gli interventi anziché integrarli tra loro per costruire una progettazione mirata e temporalmente definita;
– non prendere in considerazione il sistema determinato dal problema che li include;
– partire semplici (l’offerta di un unico intervento terapeutico) e complessificarsi nel tempo, sul peggioramento della sintomatologia senza immaginare un percorso ottimale e temporalmente definito;
– utilizzare metafore occidentali legate alla psicoterapia pensata come panacea;
– utilizzare categorie intrise di cultura come fossero neutre (la famiglia, per esempio, considerata unicamente come nucleo composto inderogabilmente da tre persone, ….);
– non utilizzare il servizio come risorsa e come un contesto in cui sia possibile l’evoluzione e l’apprendimento dei singoli operatori oltre che il contenimento dell’utenza;
– partecipare all’implementazione dell’omeostasi, della patologia, della collusione e di circoli viziosi.

  1. Suggerimenti per lavorare al meglio

Quali operazioni mettere in atto per evitare i pericoli che incombono sempre e comunque, che fanno parte del processo stesso della cura e sono ineliminabili? Se il lavoro sociosanitario emerge da una coordinazione tra persone all’interno di uno spazio di discorso condiviso, non ci saranno procedure oggettive nel lavoro clinico, e quello che sarà chiaro e auto-evidente alla fine non sarà prevedibile prima dell’incontro terapeutico.
Di seguito alcuni suggerimenti per lavorare al meglio:
–  mettere in atto operazioni riflessive di secondo livello;
– prestare attenzione ai propri pregiudizi;
– ridefinire sempre e comunque la domanda;
–  sapere di operare su indecidibili e indeterminabili;
–  lavorare in rete nel contesto allargato;
–  tenere sempre a mente possibili esiti indesiderati;
–   operare da una posizione di rispetto16.

4.1. Il rispetto

Mi soffermerò solamente sull’ultimo aspetto, quello del rispetto, in quanto lo ritengo la più importante accezione insita nel termine “professionalità”.
     Il rispetto implica un sentimento e un comportamento informati alla consapevolezza dei diritti e dei meriti altrui, dell’importanza e del valore morale, culturale della controparte e della relazione; per un clinico significa avvicinarsi alla persona e alla situazione come professionista consapevole della dialettica caos/ordine, stabilità/cambiamento, disponibilità/ritrosia, ed equivale a nutrire un profondo riguardo sia per se stessi e per i propri pregiudizi/premesse, sia e soprattutto per la/le persone con la loro richiesta di aiuto. Ancora di più un valore per la relazione che insieme si formerà e che è l’elemento precipuo di cura.
Rispetto significa quindi prendere in considerazione i “sintomi”, la storia, le abitudini di pensiero e i comportamenti che hanno avuto un senso più o meno adattivo, che la persona considera ancora utili/ indispensabili per il futuro, dei quali non ha consapevolezza piena e dai quali si sente organizzato/a e a volte gestito. Significa indagare proprio quella forma che, al momento dell’incontro crea disagio e cercarne la coerenza adattativa e contemporaneamente indagare le aree che sono libere dalla sintomatologia e che permettono di funzionare al meglio. Significa pensare che la neonata relazione è creatrice di significati nuovi e di possibilità.
Il contesto deve pertanto essere marcato in modo da rassicurare l’utente che non è un pesante fardello da sbrigare: cordialità, minuziosa osservanza degli appuntamenti, ascolto attento, creatività sono elementi non abbastanza ovvi per un inizio corretto del lavoro.

4.2. Altri suggerimenti

A questi aspetti si aggiungono:
–  attenzione al verbale, non verbale, tonale, alla prossemica, ai gesti oltre che alle parole;
–  affiliare l’utente, definire il contesto come collaborativo;
– meta-comunicare sulla relazione, su genere, razza, religione proprie e altrui, operare cioè tenendo conto delle ineludibili differenze e della contaminazione culturale che permea ogni incontro;
–  abbandonare regole a priori, accettare la molteplicità dei saperi possibili tra i quali si deve imparare a destreggiarsi con coraggio;
– passare da una tecnica prescrittiva alla capacità di riconoscere e apprezzare la narrazione portata;
– mettersi in gioco personalmente, prendere una posizione definita e onesta e assumersene la responsabilità.

  1. Conclusioni: le scorie tossiche da purificare

Nei servizi si respira un’ariaccia, la frustrazione dello staff è tangibile e c’è pochissima cura nella gestione del gruppo degli operatori, ancor meno nella gestione collettiva e riflessiva dei casi. Nei servizi si tende a lavorare singolarmente su un individuo singolo, l’urgenza ha fatto dimenticare le risorse del contesto sia degli utenti che degli operatori stessi.
Non a caso Triest parla di “scorie psichiche tossiche” cui gli operatori della salute sono esposti e che sono chiamati a purificare17. Scorie che hanno a che fare, secondo l’autore, con cui concordo assolutamente, col senso di fallimento e di insufficienza che si vive molto spesso, la sensazione di essere sotto attacco oltre alla frustrazione che i singoli sperimentano in rapporto al gap tra le aspettative, il coinvolgimento emotivo personale e la realtà lavorativa. Personalmente credo che la soluzione sia in una maggiore attenzione al gruppo di operatori (rituali collettivi di incontro, condivisione e aggiornamento) e a una capillarità del sociale tutta da costruire e implementare.

Gli operatori sono presi tra più fuochi e devono imparare a rinunciare, come motivazione primaria del lavoro psicologico, a ogni fantasia di cura, guarigione, crescita, miglioramento del sé, consapevolezza; rinunciare alle interpretazioni, a una salute mentale pensata come a priori. Non si tratta neppure di dare consapevolezza (rendere conscio l’inconscio) piuttosto di sopportare l’ansia di rimanere in territori sconosciuti, non cercare l’adattamento, non proporre l’integrazione, rendere coerenti, spiegare le trame relazionali che ci includono, rinunciando alla razionalità di una spiegazione, uscendo dalla stanza, sporcandosi le mani.

Note

1. Alla fine degli anni ‘80 un gruppo di operatori della salute inglesi che hanno studiato il servizio di salute mentale italiano lo hanno definito “il migliore possibile”. Da quella loro esperienza è nato anche un libro: L. Fruggeri, U. Telfener et al., New Systemic ideas from the Italian Menthal Health Movement, Karnac Books, London 1991.

2 Vedi lo scempio all’Università La Sapienza di Roma dell’annessione della Facoltà di psicologia alla Facoltà di medicina.

3 H. Von Foerster, “Ethics and second order cybernetics”, International Conference Systems & Family Therapy, Etics, Epistemology, New Methods, Paris 4-5-6 ottobre 1990, reperibile in …

4 M. Bianciardi, “Centralità della relazione terapeutica in terapia sistemica individuale”, Connessioni, n. 20, marzo 2008.

5 M. Bianciardi, U. Telfener (a cura di), Ammalarsi di psicoterapia. FrancoAngeli, Milano 1995.

6 J. Triest, “Save the saviour”, Pedriali and our workshop on Learning from doing, Milano … 2010.

7 W.R. Bion, Experiences in groups, Tavistock/Routledge, London 1961.

8 A. Bonomi, Sotto la pelle dello stato, Feltrinelli, Milano 2010. Triest e Bonomi mi sono stati fatti conoscere dall’amico e collega Valerio Vivenza, che ringrazio e che mi scrive a proposito di questi argomenti: “Credo sia necessario un movimento più ampio, al di fuori della salute mentale, della salute in generale, del pubblico. Si sta affermando una modalità di welfare diversa che non passa unicamente dalla grande azienda pubblica ma che non di meno è statale. Un movimento tutto ancora da costruire, in nuce …”.

9 Secondo un articolo de La Repubblica del 12 giugno 2011, “c’è un abuso di contratti a termine” che spiega come i precari coprano la carenza di un organico sempre più ridotto e dilaghino i rapporti a tempo determinato anche in settori delicati come gli ospedali e le compagnie aeree.

10 G. Rotondo, “Malattia mentale e servizi psichiatrici”, in M. Bianciardi, U. Telfener (a cura di), op. cit.

11 ….

12 .. Bianciardi, … 2006.

13 R.D. Laing (1961), L’io e gli altri, Sansoni, Firenze 1969.

14 In Italia abbiamo una dicotomia interessante, ci sono operatori formati solamente sulla patologia e altri poco consapevoli delle categorie diagnostiche; ambedue gli eccessi portano all’insicurezza nella prassi e a una progettazione “monca”.

15 R.D. Hinshelwood, L.D. Brunner, contributo al Pedriali and our workshop on Learning from doing, Milano ………… 2010.

16 Rinvio per un approfondimento degli aspetti sopracitati al mio U. Telfener, Apprendere i contesti, Raffaello Cortina, Milano 2011.

17 J. Triest, “Save the saviour”, cit.

0 comments
0 likes
Prev post: Clinica e intercultura: il lavoro con i migrantiNext post: La psicopatologia in ottica sistemica

Related posts

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.