Il lavoro con i migranti in Italia: per una pratica etica basata sul rispetto Uscito su Terapia Familiare 2010, N° 92, pag.57-79

 

Il lavoro con i migranti in Italia: per una pratica etica basata sul rispetto

Umberta Telfener[1]

 

Avere il mondo per patria e considerare stranieri solo i malvagi
Romana Petri*

 

Se non esci da te stesso non puoi sapere chi sei
José Saramago**

 

Alcune premesse

      Il fenomeno  dell’immigrazione in Italia è abbastanza recente, da circa 15 anni arrivano persone dagli altri paesi del mondo; prima eravamo noi italiani un popolo di emigranti, diretti verso il nord italiano ed europeo e l’America[2]. Attualmente anche noi siamo diventati un paese di passaggio e mentre Francia, Germania e Inghilterra possono essere già considerate nazioni multietniche, noi siamo ancora agli inizi di questa esperienza. A seguito di questa novità migratoria gli operatori sono molto allertati e molto interessati a riflettere su come lavorare con gli stranieri. Questi, all’inizio, ci offrivano solamente il loro corpo e attraverso le malattie somatiche manifestavano anche i disagi mentali (coloro che provenivano da nazioni che non avevano una tradizione psicologica somatizzavano ogni disagio e ogni tristezza, portandoci un corpo dolorante e ammalato); tornavano invece in patria nelle situazioni in cui il disagio era psichico, quasi non si fidassero a delegare il loro sistema morale e valoriale ad una cultura così diversa e spesso poco amichevole nei loro confronti. Ultimamente ci affidano sia il corpo che i problemi psichici ma il modo di affrontarli è spesso, a mio parere, troppo patologizzante, basato su un’etica universalistica di stampo occidentale (Barbetta 2003, Fruggeri 2006), sulla nosografia che rigidamente deriva dalla psichiatria ufficiale[3] che non favorisce la costruzione sociale dei problemi e non rintraccia le potenziali risorse presenti.
Questi arrivi ci spingono a fare i conti con l’altrove, ci pongono problemi di integrazione, di convivenza e di dialogo: matrimoni misti, extracomunitari soli o con la famiglia qui da noi, bambini “lavati” della loro identità a seguito di un’adozione, classi scolastiche integrate dove esistono problemi di inserimento, malati extracomunitari cui somministrare farmaci…. Si tratta di situazioni che coinvolgono le pratiche quotidiane, le rappresentazioni collettive, i sistemi di valori, le risposte istituzionali nell’organizzazione dei Servizi: “casi” di cui noi clinici dobbiamo occuparci – da ascoltare e prendere in carico – che ci hanno obbligato a ripensare la nostra  prassi, inventando percorsi originali, favorendo la molteplicità e riflettendo sulla cultura[4].
Se ci occupiamo, come io mi occupo e come è diventato imperativo fare, degli aspetti etici e delle frontiere di giustizia  nell’ambito della consulenza e della psicoterapia, non possiamo non affrontare il tema della clinica con i migranti, che  subiscono – come tutte le categorie “svantaggiate” – abusi di potere e il rischio di micro-violenze provenienti dalle risposte che ricevono dai singoli operatori e dall’organizzazione sociale e sanitaria più in generale. Di questo tenterò di parlare in questo scritto, nell’idea che sottolineare le situazioni problematiche permette di riflettere sulle buone prassi.
L’ondata di immigrazione di questi ultimi anni ha totalmente messo in crisi gli ultimi baluardi di un pensiero semplice e lineare ed ha permesso di amplificare e rendere operativi gli aspetti salienti della scienza della complessità. Sono gli ‘stranieri’, simbolo della pluralità, coloro che più di altri ci hanno messo di fronte alla perdita di certezze (identità unica e stabile, omogeneizzazione dei valori, ricerca dell’ordine, demonizzazione della diversità…). Il loro arrivo ci ha obbligato a fare i conti, non solo intellettuali, con la complessità; ha costituito l’occasione per mettere definitivamente in crisi una monocultura  occidente-centrica.
Innanzitutto una domanda: come mai così tanti operatori della salute si interessano agli extracomunitari?
Nel mio lavoro ho incontrato operatori che hanno fatto volontariato, che sperimentano e propongono nuovi progetti, clinici impegnati a re-inventare il loro lavoro e curiosi delle esperienze altrui[5]. Qual è l’origine di questo entusiastico interesse, quasi urgente? Certamente è conseguenza di un’emergenza, intesa  quale esigenza contestuale  che si è presentata in maniera dirompente a seguito del fenomeno della migrazione. Nella attenzione ai migranti sono poi rintracciabili spinte emotive, psicologiche, soggettive e collettive: sfida ai propri pregiudizi,  curiosità, desiderio di novità e stimoli che emergono dalle differenze; esigenza di decostruire le nostre certezze; moda dell’esotico in quanto  lontano ed esterno a noi. Lavorare con loro accentua i dubbi, spinge a diventare ancor più sensibili (alle differenze, alla responsabilità clinica, agli aspetti etici); permette una fantasia di rinnovamento, l’entrata in contatto con mondi nuovi; consente di affinare le modalità di comunicazione, di auto-curarsi rispetto all’etnocentrismo occidentale; offre una spinta a partecipare alla produzione di un sapere nuovo. Queste sono le ragioni più semplici di questo entusiasmo, quelle che subito vengono alla mente. Leggendo Hillman ho trovato un’altra possibile ragione per questo interesse. L’autore sostiene che chi rifiuta la molteplicità della definizione di sé é condannato a vivere la frammentazione nel sociale. La polifonia culturale rappresenta quindi il bisogno di una psicologia che dia spazio alla molteplicità, senza pretendere l’integrazione; significa l’accettazione di altre forme di unità, la coordinazione dei molti elementi che vengono via via alla ribalta. Molteplicità non implica ‘qualsiasi cosa’ bensì molte cose; significa che l’anima ha molte fonti da cui trarre significato, direzione e valore. La psiche non è solo multipla, è una comunità di molte “persone”, ciascuna con bisogni, paure, desideri, stili specifici, direzioni conflittuali e un proprio linguaggio. I migranti offrono la possibilità di flessibilizzarsi e di entrare in contatto con la molteplicità e la relazionalità.[6].
Un’altra ragione di questa curiosità crescente è la necessità di fare i conti con la parte straniera di sé: “Stranamente, lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l’intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi ci risparmiamo di detestarlo in lui.(…) Lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità.” sostiene Julia Kristeva nel bel libro Stranieri a se stessi.
Continuando con le domande: quale atteggiamento avere di fronte agli extracomunitari? Con quale lente avvicinarsi per lavorare con loro?
La maggioranza degli operatori si pone il problema dell’altro e dell’altrove e tenta, con rispetto ed intelligenza, di allontanare l’abitudine del nostro mondo occidentale ad inglobare gli altri e cancellarli, schiacciandoli nell’omologazione. I percorsi per avvicinarci agli altri sono molteplici e implicano scelte operative e la possibilità di far dialogare tra loro i rappresentanti di discipline diverse: etnologia, antropologia, etnopsichiatria, psichiatria e psicologia trans-culturali… Anni e anni di pratiche diverse e sovrapposte, tante parole per designare l’impegno e la curiosità di studiare e riflettere sull’uguale e sul diverso, in un mondo sempre più complesso e spesso complicato[7]. Questa diversità di approcci è senz’altro utile per un arricchimento del dibattito e quindi delle riflessioni e delle elaborazioni in atto a patto che si attui una distinzione tra le diverse posizioni del sapere, che spesso capita di rintracciare in letteratura come identificate tra loro. I punti di osservazione tra queste diverse prassi sono spesso incommensurabili. Ci sono,  a mio parere, differenti premesse nel punto di vista che ineluttabilmente si sceglie di assumere (consapevolmente o meno) e conseguentemente nelle pratiche che organizzano le diverse discipline. Possiamo così identificare una posizione epistemologica idiosincratica di ciascun approccio che si espleta nell’osservare/interpretare e che dovrebbe costituire il primus movens di ogni intervento clinico[8].
Molte sono le domande che ci si pone e le risposte differiscono a seconda della posizione che si sceglie. Tra queste: in che modo gli aspetti culturali influiscono sul binomio sanità-patologia? Pensiamo che il sintomo di uno “straniero” sia uguale o incommensurabile rispetto ad un sintomo di un nostro concittadino? Prestiamo attenzione al sistema osservato (il migrante e il suo sintomo, la sua cultura originaria) o siamo disposti a cogliere l’interfaccia tra le molte culture di cui quel sintomo è l’emergenza, che ci coinvolgono ineludibilmente? Vediamo del migrante solo il lato “esotico” o siamo disposti a indagare la sua contaminazione con la cultura italiana, in cui abita e in cui il sintomo è emerso? Ci chiamiamo fuori o ci consideriamo parte di ciò che vediamo e di ciò che accade? Quando si parla del rapporto tra culture si rischia di porsi all’esterno di esse, come un giudice che da un luogo privilegiato di osservazione le valuta. Si rischia di diventare un terzo, esterno, che crede di essere neutrale anziché ineludibilmente di parte, in quanto permeato dalla mentalità occidentale, dalla ‘cultura dominante’, che induce a proporre un flusso a senso unico, una vera e propria aggressione camuffata da comprensione (ritenere per esempio che lo sviluppo economico, la velocità e lo sviluppo tecnologico siano ottimali in ogni circostanza; che il tempo da scandire sia quello “nostro”; che la normalità e la sanità mentale seguano i parametri dettati dall’occidente culturalizzato[9]). Quanto ci permettiamo come umani e come operatori pause di riflessione che possano provocare la sospensione delle usuali categorie spazio-temporali e dei concetti culturali abituali, per aprire la possibilità a modi di pensare/sentire nuovi, per accogliere alcune delle trasformazioni che l’incontro con l’altro può provocare?
Credo personalmente che nel lavoro coi migranti siamo ancor più tenuti ad una scelta responsabile sia delle lenti interpretative, che del modello di intervento, che dei singoli contenuti che si sceglie di far emergere e credo comunque che nessuna scelta ci metta al riparo dalla responsabilità delle sue conseguenze. Sondare le tradizioni culturali della persona che ci è di fronte (italiana o straniera che sia) non ci tutela comunque dal partecipare alle dinamiche sociali e politiche che determinano la qualità della vita nostra e dei migranti stessi. Dobbiamo stare attenti quindi al rischio di affascinarci agli altri con l’intenzione tacita di recuperare la nostra  identità di occidentali; attenti a sposare una clinica interculturale senza  decostruirne il concetto stesso; cauti cioè nella posizione di osservatori partecipanti. Quale migrante abbiamo in testa? Cosa pensiamo di un comportamento per noi insolito? Siamo in grado di distanziarci dai processi di pensiero, differenziare l’esperienza sensoriale dalle categorie che utilizziamo per descriverla? Riconosciamo le narrazioni nelle quali siamo implicati e ci riteniamo comunque parte del processo in atto e contemporaneamente esterni al dominio di osservazione (per riflettere sulle categorie che utilizziamo)? Monitoriamo cioè la nostra collocazione come osservatori-partecipanti? Quanto personalmente tendiamo a leggere le situazioni utilizzando una cornice tacita e trasparente  e viceversa quanto siamo capaci di decentrarci? Rendersi conto di questo significa assumersi la responsabilità delle descrizioni proposte, assumere un atteggiamento etico di conoscenza della propria conoscenza, di riflessione sulle proprie riflessioni e la responsabilità degli ineluttabili punti ciechi. (Caro lettore mi scuso per le ripetizioni semantiche che non posso evitare: credo fermamente che la prassi clinica si basi su operazioni di secondo ordine quindi su operazioni sulle operazioni. Le ripetizioni indicano una posizione epistemologica cui tengo molto.)
Il lavoro clinico non può prescindere quindi dagli aspetti culturali che sono impliciti e devono essere resi espliciti nella prassi: la cultura di cui propongo di occuparci si riferisce specificamente ai simboli e ai significati che emergono nella relazione, nel qui e ora della definizione del contesto, del problema e delle possibili soluzioni. La clinica interculturale che vado a definire considera la negoziazione sui termini della relazione il punto focale dell’incontro: non ci si sofferma sulla cultura originaria del paziente[10] (difficilmente si accede ad essa in quanto è una struttura invisibile e tacita di cui gli utenti fruiscono ma che rimane inconsapevole, spesso idealizzata, come l’aria che noi respiriamo e di cui siamo consapevoli sono nei momenti di impasse quando manca, quando è particolarmente pura o inquinata). Ci si sofferma invece sulle rappresentazioni partecipate insieme nel qui e ora del contesto clinico in cui avviene l’incontro, ci si sofferma sul problema per cui viene richiesto aiuto e sul contesto condiviso nel quale si interagirà per affrontare il problema, sulla relazione tra le persone che chiedono e offrono aiuto. “Come legge l’altro la domanda di aiuto e come la leggo io”, “Cosa capisce del contesto in cui siamo e che spiegazioni gli offro”, “Cosa chiede quando mi chiede aiuto e cosa comprendo io”, “Quale tipo di relazione si aspetta e a quale tipo di relazione sono io abituato/a”. Le questioni che devono essere messe sul tavolo, esplicitate e affrontate riguardano sempre la relazione nel qui e ora e le rispettive aspettative, la definizione della relazione e del problema nella stanza di consulenza. Le questioni che emergono non possono prescindere dalle risorse che ci sono in campo e da quelle nuove che possono venir rintracciate.
La cultura diventa un costrutto operativo che emerge dall’incontro e si gioca nella relazione tra le rappresentazioni reciproche di coloro che condividono temporaneamente uno stesso contesto. Chi sono io come clinico, sono maschio o femmina, che religione professo, che storia personale e professionale ho avuto, quali sono i miei valori, di che etnia e classe sociale faccio parte… Si tratta di aspetti che entrano in gioco nell’incontro con l’altro, che a sua volta ha un genere, una religione, un gruppo di appartenenza e tanto altro. Dalla prima stretta di mano, dal primo incontro, alcune di queste cose rischiano di venir date per scontate (soprattutto in Italia, in cui il colore della pelle dei clinici è quasi sempre bianco e la religione quasi sempre cattolica) mentre è assolutamente importante che vengano portate alla luce, anziché sottaciute e date per scontate.
La pluralità culturale può esprimersi nel vestiario, nel cibo, negli accenti, nelle abitudini di vita, nei vissuti connessi alle abitudini. Sensibilità, struttura familiare, significato dato al passato, al presente e al futuro, uso quotidiano del tempo, importanza prestata ai valori tradizionali, diverso impegno verso i membri della famiglia di origine e allargata, modalità intuitive o razionali di decodificare e affrontare i problemi, diversità nell’agire i propri ruoli, sono tutti aspetti che mutano con il mutare della latitudine e della cultura di appartenenza, anche tra abitanti di uno stesso quartiere, di una stessa città. Molti utenti risultano distanti culturalmente da noi già rispetto al livello di riflessività (il rapporto personale con i processi del conoscere) cui sono avvezzi: quanto e come sanno. Diventa importante essere consapevoli di quanto le differenze rischino di venir lette come caratteristiche intrinseche al cliente piuttosto che come un riflesso del contesto culturale, della storia del problema, anche dell’incontro clinico. 

Marcelo Pakman racconta in un bell’ articolo sul lavoro interculturale di aver chiesto ad una paziente ricoverata in un ospedale psichiatrico come mai, contrariamente a quanto avesse fatto con gli altri membri dello staff , non si fosse comportata con lui in maniera maleducata e tanto meno aggressiva. La donna gli risponde che si fida di lui in quanto ha ‘un accento marcato’. ‘Non sapevo che anche gli accenti avessero a che fare con il colore della pelle’ commenta Marcelo. La paziente risponde: ‘Caro dottore, in questo paese (USA) tutto ha a che fare con il colore della pelle.’

La clinica interculturale

     Lavorare con le persone implica non eliminare nessuna delle culture presenti, convivere con le differenze e presentare la nostra cultura, esplicitandola. Personalmente sono contraria a ricette preconfezionate, a parlare di interventi specifici con gli extracomunitari, tanto più alla proposta di nuovi modelli. Preferisco declinare la questione in altra maniera: la disponibilità a riflettere su come i mezzi in nostro possesso siano sufficienti ad entrare in contatto con “altri da noi” e quali aspetti specifici questa alterità comporta.

Etienne, “camminava” per strada, e si trovava sul marciapiede quando da una macchina sono scesi due uomini (guidava una donna), l’hanno picchiata poi cosparsa di benzina e le hanno dato fuoco. A seguito delle bruciature il suo corpo sembra un terreno vulcanico, non più levigato e liscio com’era un tempo. La ragazza subisce un lungo ricovero  e contatta il San Gallicano di Roma dopo la sua  lunga degenza. Mi viene inviata dal direttore della struttura e mio capo, “in quanto le farebbe molto bene sentirsi seguita dopo il trauma subito”. La ragazza, 20 anni,  risiedeva con altre nigeriane presso una donna compaesana alla quale doveva un riscatto di 40.000 euro. La ragazza mi racconta che la madre crede che lei faccia in Italia un corso per diventare parrucchiera, che è stata reclutata da una donna che le aveva promesso un lavoro “onesto” e che poi l’ha condotta nella casa di Roma dove ha abitato fino all’incidente. Personalmente ha dei dubbi che la madre non sappia la sua vera vita, comunque lei non ha mai contrastato la versione ufficiale della famiglia di origine. Attualmente vive dalle suore (donne, sempre donne, spesso traditrici o comunque ambigue) e si dichiara molto triste di non poter continuare a  “fare la vita” che descrive come “migliore”, più facile, divertente e remunerativa, rispetto alla sua realtà attuale, che la fa sentire “morta” e sola.

Che lavoro fare con E. che è insensibile alle proprie istanze interne perché unicamente preoccupata del suo corpo, della possibilità che ritorni bello e liscio come prima, seducente per gli uomini? La ragazza non mostra le emozioni collegate al trauma subito né sembra interessata a rivangare la sua vita precedente, che sente molto lontana, estranea al suo presente e al grave problema che la affligge. Di seguito espliciterò alcune delle mie riflessioni nel gestire il caso.

–     Per prima cosa qual è il suo problema? Quale problema trattare? Come intervenire? Ha senso parlare di sindrome post traumatica da stress? Certo, la ragazza ha subito un grosso trauma, ci mancherebbe altro! Ha senso parlare di alessitimia[11] (stato in cui non si conosce il nome delle proprie sensazioni) dal momento che i migranti esplicitano le loro emozioni attraverso modalità altamente culturali, non necessariamente come noi? Certamente non ha senso fare una diagnosi occidentale e, secondo me,  bisogna forse rinunciare a mappe certe, a indicatori chiari. Mi impongo di abbandonare categorie diagnostiche a priori a favore di una soggettività più partecipata, tentando di non separare il sintomo dalla persona,  il soggetto dai suoi universi (Nathan),  né lei da me. Tento di entrare nel suo universo e ricerco e co-costruisco una coerenza (ove possibile) tra le mappe che sono in campo: nessuno ha più ragione degli altri,  il tentativo diventa quello di embricare opinioni e congetture per trovare un punto di vista sovraordinato che contenga le mappe di tutti.

–    E’ necessario poi il passaggio da una tecnica prescrittiva (l’incontro al fine di creare un cambiamento) all’ascolto inteso come la capacità di riconoscere e apprezzare l’importanza della narrazione portata. Ascolto quindi, non da una posizione esterna e privilegiata, ma partecipando empaticamente in maniera interattiva. La costruzione di un mondo possibile (Bruner 1988) è ciò che cerco di proporre, sentendomi “confrontata” da una ragazza arrivata da poco nel mondo occidentale, molto ammirata del potenziale consumismo e non alfabetizzata a categorie psicologiche (seppur spesso abusate e abusanti).  Ricerco e valorizzo i “regali” (pochi, per la verità) che ha in serbo per se stessa e per me, le risorse che può mettere in gioco, le aspettative con cui é partita e che tiene strette nel cuore; mi interesso anche a ciò che ha ricevuto di buono dal nostro Paese, da alcune persone che sono diventate “speciali” (un uomo con cui andava, una amica di vita), che le hanno permesso di mantenere un po’ di speranza. Elenchiamo insieme i “proprietari[12]” che la possiedono e organizzano il suo comportamento e i suoi stati d’animo.
Indago, faccio domande, mi aspetto un racconto relativo al nostro lavorare insieme. Etienne parla poco, controvoglia e in un francese molto difficile da decodificare. Vorrebbe che parlassi io? Se parlo si distrae subito. Vorrebbe invece che mi facessi carico del suo problema e che magicamente le guarissi la superficie cutanea.

–    Frustrata dal “poco” che riusciamo a mettere insieme, nella difficoltà di un rapporto “povero”, immagino necessario contaminare il setting,  rinunciando ad un incontro duale e unicamente verbale. Suggerisco l’allargamento del contesto operativo, la sua complessificazione, introducendo personaggi significativi portati in seduta da lei e reclutati anche dalla struttura dove stiamo. Penso che  un gruppo di riferimento garantisca il rispetto delle norme tradizionali e la possibilità di amplificare e decodificare – a volte tradurre – vissuti emotivi specifici della cultura di appartenenza. Invito quindi alcune persone ai nostri incontri: mediatori del Servizio, una sua amica che ancora “fa la vita” (ci tiene a non perdere i contatti e questa è una risorsa), una suora che sente più alleata delle altre. Una mediatrice nigeriana in particolare aiuta E., manifestando per lei una rabbia molto forte: urla, sbraita, si dimena e modella una possibile reazione di accoramento, si emoziona al posto della ragazza e “la cura” della sua rabbia attraverso la propria, che continua, molto sincera, per più di un incontro. Io mi trovo a dover gestire anche la rabbia della mediatrice ma sono consapevole che gestendo la rabbia di lei comunico con Etienne.

–     Un quarto aspetto (dopo la rinuncia alla diagnosi, l’ascolto e la contaminazione del setting) cui scelgo di prestare  attenzione è la rete tra operatori: il coordinamento ineludibile tra operatori e il collegamento tra gruppi e istituzioni. Di qui la necessità di andare con lei a parlare con il suo medico curante per ricapitolare insieme le tappe del processo di “restauro” corporeo; convoco altresì assieme a lei le suore presso cui abita e l’assistente sociale della cooperativa che l’ha in carico. Solo la collaborazione tra più figure professionali (interne ed esterne al Servizio) e la comune costruzione di ipotesi sembra permettere la costruzione di un intervento integrato e rispettoso della complessità. Solo la possibilità di evitare ogni frammentazione operativa – evitando di stabilire rapporti singoli e ipotesi idiosincratiche alle singole figure – sembra rispettare la complessità sociale presente nella sua condizione di abuso, e rispondere al suo bisogno con un opportuno e altrettanto significativo grado di strategizzazione comune. Nel tentativo di superare il confinamento delle singole professioni e dei Servizi che di Etienne si occupano il lavoro di rete diventa strumento privilegiato dell’intervento. Ho tentato di non avallare un ordine impartito dall’alto (le ‘fabbriche dell’ordine’ descritte da Foucault) e di costruire una visione e una strategia condivisa, attraverso incontri prestabiliti che ci vedono tutti presenti. Lo scopo è quello di mettere in comune le differenze, esplicitarle, resistere alla mentalità collusiva per costruire insieme ipotesi evolutive e pianificare le tappe che potrebbero determinare una possibile processualità.  Ho cioè lavorato col sistema determinato dal problema di cui facevo anch’io parte.

–     Mi sono impegnata in un progetto terapeutico non lineare e non rigido, organizzato su più piste, fornito di possibili alternative, saldamente connesso al sociale. Questo progetto, organizzato dalla necessità di una strategia puntuale, ha implicato parole e azioni, incontri solo per consegnarle una nuova crema per il corpo o per farmi raccontare un’ennesima frustrazione nel rapporto con le suore; con lei e con il sistema tutto che intorno a lei ruotava. L’utilizzo della Struttura è stato utile per trovare uno spazio fisico dove incontrarsi anche con altre donne e proporre alternative ‘sociali’ agli incontri con me: ho proposto un gruppo di riferimento della sua cultura, ho tentato di connetterla con la chiesa del suo culto (proposte ambedue rifiutate), sono riuscita invece a presentarle una persona autorevole della sua comunità di appartenenza (un angelo custode che l’ha presa sotto la sua ala), a proporle un gruppo di auto mutuo aiuto in atto nel Servizio stesso (quindi il collegamento sociale con nuove persone). Il tentativo è quello di far  diventare il Servizio curativo di per sé,  facendo prendere in carico l’utente da più  figure di riferimento e coinvolgendola in più attività e proposte.
L’offerta di psicoterapia non rappresenta – a mio parere – una soluzione ‘efficace’ con i migranti e con Etienne ho privilegiato consultazioni brevi e partecipate. La psicoterapia, sempre troppo verbale, troppo razionale, assolutamente occidentale, propone un setting troppo rigido e una distanza tra clinico e utente determinata da una storia tutta medicale; rischia di essere un esercizio soggettivo della soggettività (Nathan 1996) messo in atto con una ragazza che proviene da un paese in cui la soggettività non è un apprendimento né un valore.
Il percorso clinico sembra snodarsi quindi su una duplice valenza pensiero/azione, declinato attraverso pratiche che ne formano l’ossatura, interfaccia di un unico atteggiamento: pensare globalmente, agire localmente, pensare un pluriverso e agire sull’universo.  Sempre e comunque favorire e facilitare il coordinamento tra le differenze (Pearce 1993).

–      Riflettendo sulla struttura degli incontri desidero accennare alcune specifiche particolari nel lavoro coi migranti. I tempi degli incontri (frequenza e durata) non sono scontati: tempi dilatati o ravvicinati, rinuncia ad appuntamenti settimanali tipici del setting occidentale; il lavoro indietro nel tempo con gli antenati può risultare utile ma non sempre necessario (nel caso di Etienne non volentieri parla della sua famiglia che “l’ha tradita”, acconsentendo che partisse pur “sospettando” un lavoro losco). Importante è il qui e ora del vivere quotidiano; impossibile da immaginare il futuro, troppo instabile perché venga solo ipotizzato. Gli interlocutori reali e mentali: importanti sono alcuni personaggi distanti, assenti, fantasmatici, (l’interlocutore mentale che ha dato il benestare alla partenza, nel suo caso uno zio materno che l’ha “benedetta” e “che se sapesse verrebbe a salvarla”). Importanti le figure di riferimento nel contesto presente, che se non esistono, vanno presentificate nella mente e conseguentemente invitate in terapia. Importanti infine gli attaccamenti a lingua, luoghi, divinità, antenati, modi di fare e a situazioni sociali. Gli spazi, parimenti, non sono quelli canonici (diventa terapeutico recarsi dal dermatologo insieme, accompagnarla a comprarsi un paio di pantaloni in uno spaccio vicino al Servizio) ed è necessario uscire dall’asetticità della propria stanza. Questo implica una maggiore attenzione a quello che si fa in seduta anziché a quello che si dice (aspetto spesso sottovalutato). Con Etienne e coi migranti in generale le parole sembrano strumenti non sufficientemente potenti per innescare una perturbazione, sembra che non abbiano permanenza, che vengano buttate dietro le spalle e che scoloriscano del loro significato appena pronunciate. Gli oggetti ‘transizionali’ (il tè preso assieme, la discussione su un taglio di capelli, la condivisione del cibo una volta che lei si spingerà a cucinare un cous cous) diventano invece azioni che co-costruiscono un clima emotivo, un modo per muoversi uno verso l’altro. Ho appreso con lei quanto fosse necessario inventarsi nuovi codici di incontro, costruire una fiducia non unidirezionale, fatta emergere dal reciproco scambio. E’ stato utile utilizzare il non verbale, l’irrazionalità, l’empatia, il dubbio, il cuore, alla ricerca di momenti di condivisione. E’ stato importante occuparmi sia delle potenziali risorse emerse nei colloqui che dei limiti di cui la ragazza amava disquisire  e costruirmi come testimone di ogni possibile momento di tregua dall’ansia e dalla paralisi.

–      Un ultimo aspetto voglio mettere in risalto: la necessità da parte mia di riconoscere l’ineludibilità della mia ignoranza. Mi sono dovuta accontentare di sapere di non sapere, di capire di non capire. La differenza tra un intervento di tipo normativo e uno evolutivo dipende da quanto gli operatori si mettono in gioco nel processo e prendono in considerazione se stessi come partecipanti attivi al processo; quanto riescono poi a differenziare tra il curare ed il prendersi cura, o meglio, tra l’intervenire per voler cambiare versus una attenzione alternativa a non bloccare la situazione che di per sé è comunque processuale. Sto parlando della differenza tra “intervenire” ed evitare di staticizzare una situazione[13] (evitare la collusione, prestare attenzione al rischio del rischio iatrogeno, allertarsi rispetto al rischio di cronicità,). Ho prestato costantemente attenzione a non bloccare la naturale tendenza del sistema all’evoluzione, a non chiudere le porte che si dischiudevano e a non staticizzare la situazione già così difficile con cui Etienne si era presentata. Ho monitorato la possibilità di mie zone cieche – tutto ciò che non mi accorgevo di non vedere – le collusioni, i miei ineluttabili pregiudizi, le griglie culturalmente determinate con cui leggo gli eventi, gli inprinting che sono diventati parte di me,  inconsapevoli. Ho prestato costante attenzione al rischio del rischio iatrogeno, a tutte quelle premesse e accadimenti che possono bloccare il processo e creare – per come sono gestite – patologia e stasi anziché evoluzione (Bianciardi, Telfener 1995, Telfener 2009).

 

Quando la domanda è di terzi

     Le domande dei migranti provengono dai singoli ma anche da una committenza sociale esterna (la scuola, il tribunale, l’ospedale, il sociale più in generale). La domanda  a volte è quella di proteggere uno specifico problema/popolazione dalla trasgressione alla convivenza che si impone con un determinato comportamento. Come fare? Come abbiamo detto fin ora, attraverso  un setting contaminato e complesso, con progetti a tempo, coinvolgimento della rete, costruendo la domanda anziché intervenire direttamente su una già preconfezionata e culturalmente avvallata dal frame dominante. Intendo proporre un altro caso clinico ricordando a chi legge che è il contesto che trasforma i problemi in possibilità.
Si tratta della supervisione degli operatori di un Servizi che “cadono nella trappola” di rispondere alla domanda di una struttura religiosa che a sua volta risponde alla domanda di alcune scuole del territorio. Vedremo come  proprio l’attività fin troppo solerte e competente degli operatori del Servizio che intervengono senza una attenta analisi dei bisogni del Territorio, costruirà un circolo vizioso che non darà i risultati sperati.

In una regione del centro Italia i Presidi di due scuole medie di una cittadina medio grande chiedono alla Caritas della zona di istituire un doposcuola, a cui possano accedere i figli di migranti che creano problemi in classe in quanto: 1- non studiano, 2- non frequentano con regolarità, 3- non prendono seriamente l’impegno scolastico, 4- vanno male sia per condotta che per profitto. La Caritas risponde alla domanda in modo ortopedico e apre un centro pomeridiano in cui alcuni educatori sono incaricati di far fare i compiti ai ragazzi (La Caritas coinvolgerà poi altre scuole per avere un numero “ interessante” di ragazzi). Appena l’affluenza al Centro decresce, la Caritas si rivolge agli operatori del chiedendo loro di contattare le famiglie dei ragazzi immigrati affinché i ragazzi frequentino. Anche questi operatori eseguono in un primo tempo il mandato in maniera lineare/ortopedica anziché fare un’analisi della domanda sulle aspettative della Caritas e sui bisogni delle parti coinvolte (che pensano le famiglie di quello che sta avvenendo sopra le loro teste?). Poi chiedono una supervisione in quanto la situazione sembra bloccata.

Chi è il committente degli operatori del CSM? Come i bisogni del Territorio sono diversi da quelli dei Presidi e della Caritas? Quale è una corretta operatività per gli ultimi arrivati?

1- I Presidi non si assumono il problema ma mandano i ragazzi in un altro posto e delegano alla Caritas,  pensando di utilizzare una risorsa del Territorio. Inviano i ragazzi senza una razionalizzazione esplicita di scopi e fini né agli allievi stessi, né alle loro famiglie e neppure agli educatori della Caritas che si accontentano di una nuova iniziativa nel territorio e si danno subito da fare. C’è quindi una delega ad una struttura religiosa (cattolica, quando i ragazzi non lo sono) che rischia, se non ci se ne accorge, di costituire un elemento confusivo e coercitivo (la fantasia che si tratti di  un processo indiretto di evangelizzazione verrebbe a chiunque). Se non affrontato, può costituire già un vizio di fondo che non permette una corretta impostazione del problema.

2– I Presidi pensano che i problemi dei ragazzi non abbiano nulla a che fare con l’insegnamento, con gli insegnanti né con la politica della scuola, con il suo “ethos” e delegano anziché proporre una discussione interna agli istituti.

3- Al neonato doposcuola vengono inviati solamente i ragazzi più bisognosi di aiuto, creando una ulteriore frattura tra bravi e somari e amplificando ancora di più le distanze tra residenti e stranieri.

4- Quando anche al doposcuola le assenze diventano evidenti, quando cioè “naturalmente” i ragazzi continuano a comportarsi come si erano sempre comportati a scuola (in quanto per loro non è cambiato nulla, hanno solo ricevuto di più del solito in un contesto che è uguale all’altro), gli operatori Caritas coinvolgono gli operatori del CSM, chiedendo loro di contattare le famiglie e costruire la motivazione alla frequenza del doposcuola. Anziché analizzare la domanda e ridefinirla, anziché domandarsi perché i ragazzi non sono motivati alla scuola e come le premesse della scuola stessa possano cambiare, gli operatori si lanciano a corpo morto nell’impresa di contattare tutte le famiglie migranti del territorio per scoprire che questa richiesta di contatto aumenta la sospettosità e le assenze: c’è una grande fetta di immigrati che vengono da Paesi dove la figura dello psicologo non esiste e quindi non hanno mai avuto un aiuto socio-psicologico e sospettano che sia un intervento “giudicante” e non di supporto. In molti paesi stranieri non occidentali poi la figura del maestro è autorevole di natura e non ci si sognerebbe  mai di andare a interferire con il lavoro di una Istituzione cui si ha completamente delegato l’istruzione dei figli.

5- La rete che si è costruita tra operatori DSM e operatori Caritas esclude gli insegnanti della scuola che hanno totalmente delegato il problema e non hanno messo in discussione le proprie modalità educative. La rete non coinvolge neppure i familiari dei ragazzi che anch’essi non vengono coinvolti nella progettazione e nel problema ma solo interpellati perché obbediscano ad una coercizione  e questo ancor più li fa sentire sotto giudizio.

6- La committenza proviene dalla scuola; sarebbe un errore ipotizzare che la domanda da parte della scuola e da parte della famiglia siano uguali, anche se sarebbe interessante vedere tutte le famiglie (anche quelle i cui figli non sono andati alla Caritas e che vanno bene a scuola): cosa vorrebbero dal sociale se venissero informati di poter fare alcune richieste? Perché vorrebbero alcune cose e non altre?
Se poi scoprissimo che la domanda della scuola e delle famiglie è la stessa, cioè che i ragazzi studino ed abbiano successo, perché non richiedere un aiuto diretto a queste famiglie per raggiungere un intento comune, perché non coinvolgerle anziché “indagarle” e sospettare di loro? Perché non lavorare sulle premesse delle persone implicate per esplicitarle e cercare dei punti di unione, domandandosi quali prassi amplificano il meccanismo di esclusione? E’ importante che la domanda e le premesse siano quelle delle parti in causa e non quelle che gli operatori pensano siano le  loro. E’ ancora più importante che gli operatori non pensino che le loro premesse siano condivise da tutti.

 7- Siamo certi che la modalità per rendere la scuola un’esperienza positiva sia quella di dare ai ragazzi di più della stessa cosa, cosa che a loro già non piace? Perché non ipotizziamo di organizzare  anche degli spazi solamente ludici e sportivi,  delle esperienze gratificanti, dei luoghi di eccellenza dove i ragazzi più “ciucci” possono eccellere in qualcos’altro anziché continuare a venir frustrati rispetto a qualcosa che sappiamo che non sanno fare[14]?

8- Nella supervisione approfondiamo la differenza tra delega e progetto e la necessità di essere chiari rispetto ad ambedue le operazioni: la Caritas ha accettato la delega da parte della scuola, sostituendosi ad essa nella possibilità di motivare i giovani; non ha organizzato però una progettualità puntuale sul gruppo, considera ogni caso inviato uguale all’altro. Non si riscontra una specificità nel percorso e nelle attività proposte, la Caritas si è limitata a creare uno spazio in cui i ragazzi continuano a fare quello che già facevano a scuola e questa collusione sembra quasi rassicurante per confermare le premesse degli operatori tutti che i migranti non sono abbastanza grati delle opportunità che gli vengono offerte e non sono in grado di costruirsi un futuro.
Gli operatori Caritas chiederanno poi aiuto agli operatori del CSM e a loro offriranno un incarico, non sentendo il bisogno di chiarire il processo in atto di cui già fanno parte Scuola e Caritas stessa e perpetrando quindi l’inevitabile collusione. Il contratto che stipulano è vago e permette di non attendersi risultati espliciti, non comporta coordinamento tra le organizzazioni e implica un controllo minimo (fare diventa più importante che pensare).

9- Qualora il doposcuola funzionasse le famiglie rischierebbero di venir messe in cattiva luce in quanto non sono riuscite dove altri hanno avuto successo: può un ragazzino aver successo scolastico se la sua famiglia viene giudicata e messa in cattiva luce? Se deve scegliere tra famiglia e scuola, perché non sono alleate, per chi propenderà un giovane spaesato? Forse anche gli insegnanti si troverebbero in crisi se educatori giovani riuscissero dove loro hanno fallito. Il doposcuola inoltre “rischia” di avere successo soprattutto se, in sinergia con la scuola, riesce a individuare i minori con i problemi più gravi. Il circolo vizioso è chiaro: più le Agenzie si attivano, più le famiglie tendono a delegare per paura delle critiche e del giudizio e si defilano, più le famiglie si defilano più i bambini sono lasciati a se stessi, più i ragazzini sentono che questa è una priorità della scuola e non della famiglia e più vengono presi in mezzo tra queste due organizzazioni sociali e rischiano di giocarne una contro l’altra, in un circuito che si auto-perpetua e peggiora costantemente il comportamento dei ragazzi. La patologia viene amplificata dagli stessi tentativi di soluzione.

     Definizione patologica semplificata e lineare dei problemi, lavoro con le famiglie senza una domanda, risposta ortopedica ad una richiesta, pretesa del controllo, mancata ipotizzazione di un percorso progettuale non giudicante, mancanza di una reale collaborazione tra le parti, mancanza di trasparenza, pregiudizi non consapevoli circa la “negatività” delle famiglie che non si adeguano ai valori dell’occidente, giusti per principio… Le sviste che vengono compiute sono piccole ma numerose, finché gli operatori, accortisi delle collusioni e nella paura di diventare “dottor omeostata” chiedono la supervisione. A quel punto anch’io entro nel gioco e devo per forza ricominciare daccapo con la definizione dei problemi, delle alleanze, dei giochi in atto e delle possibili collusioni. Con estrema facilità potrei entrare in un gioco che si perpetua da tempo e che ha creato un percorso già tracciato, facile da seguire.
Un aspetto voglio mettere in evidenza maggiormente, anche se vi ho più volte accennato: in casi d’urgenza e di sintomi conclamati gli operatori rischiano di offrire subito una risposta, di farsi carico del problema e di “comprare” le spiegazioni con cui la cultura dominante spiega ciò che è in atto, saltando l’analisi della domanda che è sempre di per sé l’intervento psicologico-clinico d’elezione. Ogni relazione clinica dovrebbe basarsi sull’analisi della domanda, strumento principe nel riconoscimento del disordine. Questo fondamentale processo iniziale si discosta dal percorso clinico “tradizionale” che associa il sintomo alla persona e riflette invece sul rapporto tra evento e contesto di significazione. “Si tratta di una prassi simile alla dissociazione tra sintomo e persona propria della cultura selvaggia – dice Tobie Nathan – dissociazione praticata attraverso l’attribuire intenzionalità all’invisibile”. Questa analisi propone di prestare attenzione al percorso che ha condotto al sintomo e alla conseguente richiesta di aiuto. E’ quindi una sorta di microanalisi della costruzione dei processi relazionali intersoggettivi e dell’interconnessione degli eventi; la ricerca di un senso in cui anche gli operatori siano coinvolti nel ruolo di  co-protagonisti. Si tratta di mettere in atto quello che Shotter chiama knowing from within, la capacità di far emergere informazioni dalla relazione partecipata. L’analisi della domanda permette di mettere in comune le differenze, accettare la reciprocità nel manifestare i propri punti di vista e non cercare una sintesi né un accordo; si tratta di inventare una nuova lingua processuale che si occupi del percorso di emergenza del problema; l’opportunità di rimanere nello spazio e nel tempo ‘tra’, nel pieno rispetto e nella valorizzazione delle differenze, coabitando con esse, senza la necessità di un punto di vista unitario. A volte si tratta di riconoscere la  reciproca incomunicabilità.
Per tutte queste ragioni questa procedura è ancor più importante nel lavoro interculturale, perché permette la sospensione di una abitudine al pensare organizzato dalla psicopatologia e favorisce la costruzione di una narrazione e un ascolto partecipato. Ricordiamoci che il processo di trasformazione viene messo in movimento già all’incontro della struttura e dei suoi operatori, attraverso il lavoro comune sulla domanda, senza bisogno dell’attivazione di un dispositivo terapeutico specifico. “La funzione terapeutica non può essere implementata dall’esterno, ma solo sollecitata a riattivarsi in quanto funzione interna all’individuo e al sistema, di cui rappresenterebbe una qualità emergente, altamente specifica e trascendente l’individuo stesso” scrive Salvatore Inglese.
Nel caso raccontato è venuta a mancare una domanda esplicita, una analisi dei bisogni di tutte le parti in gioco, non è stato fatto un contratto condiviso. Sarebbe stato necessario ridefinire la delega e coinvolgere in maniera più attiva sia la scuola che le famiglie che la Caritas stessa. Sarebbe stato utile, se non indispensabile, dare significato a quello che è avvenuto, accogliendo e analizzando le risposte emerse nel percorso. La domanda che insieme ci siamo posti, dopo aver analizzato le collusioni e le trappole, è la seguente: quale contesto dobbiamo co-costruire al fine di far emergere una processualità che abbia le caratteristiche della condivisione, che sia evolutiva, partecipata e che crei un circuito virtuoso, utilizzando tutte le forze in campo?

Conclusioni: la necessità di una posizione etica

Cosa ho proposto nel lavoro coi migranti?

  • Lavoro sui sistemi osservanti, quindi sulla relazione tra clinico e pazienti. Attenzione al sistema che include l’osservatore ed emerge dalla messa in comune delle differenze all’interno di uno spazio condiviso;
  • Monitorizzazione stretta sulle premesse in campo rispetto all’idea di problema, di cura, di intervento, di diversità….;
  • La costruzione, attraverso l’analisi della domanda, di un contesto dinamico e processuale, in cui sia possibile un gioco di narrazioni e rinarrazioni all’interno di uno spazio/tempo definito e chiaro, da parte di tutti coloro che sono coinvolti;
  • Una progettualità minuziosa, importante in quanto permette di costituirsi come costante
  • La necessità di ridare competenza ai partecipanti: gli operatori sono esperti del cambiamento, gli utenti della loro vita;
  • Un ascolto partecipato che si esplicita attraverso un atteggiamento di rispetto;
  • Un coordinamento serio tra operatori anche di agenzie diverse;
  • Una doppia posizione degli operatori: l’ottimismo rispetto alle risorse presenti, il realismo della situazione in atto.

Ho sostenuto che lavorare nel rispetto delle differenze significa esplicitare reciprocamente (non negoziare, esplicitare) i simboli della cultura organizzativa che ci si porta appresso e che emergono nel modo in cui il sistema clinico (il paziente, l’operatore, la famiglia e il gruppo sociale di riferimento dell’utente, il gruppo dei colleghi, i collaboratori della struttura in cui avviene il colloquio, gli altri coinvolti…) si rappresenta la propria situazione e la propone nella consultazione; esplicitare il modo in cui, raccontando la propria storia, sia gli operatori che gli utenti enfatizzano alcune informazioni, ne tralasciano una parte, attribuendo ruoli e valori a sé, agli altri significativi e al nuovo contesto clinico appena formato. Nell’ottica qui proposta diventa inevitabile esplorare l’altrove per considerarlo, anziché un luogo di paura e di estraneità, un crogiolo di nuove tematiche, di possibili storie, di linguaggi diversi da decodificare e con i quali interagire. In questa ottica l’alterità diventa una possibilità oltre che un vincolo, e questo a patto che non si consideri l’altrove come un concetto statico (ed una prassi statica intervenire sull’altrove) e si riesca a processualizzare la polifonia. Solo così l’altrove può emergere nella relazione, nel rapporto tra persone, nell’incontro tra gruppi. La ‘competenza interculturale’ non si improvvisa ma va costruita, fra l’altro tenendo conto del modo in cui è possibile tradurre nella prassi clinica indicazioni che provengono da altri contributi disciplinari. L’ottica sistemica a mio parere rimane una cornice coerente e adatta per pensare in maniera interculturale, impone infatti  di occuparsi della forma delle domande e delle risposte e propone il dialogo come operazione interattiva e sociale in cui sparisce la causalità.
Questa operatività da me proposta è specifica, differente da quella impiegata con i nostri connazionali? Non necessariamente, certo, ancora più attenta alle differenze culturali. Rifiuta poi in maniera più estrema la psicoterapia in quanto 1- è una pratica tutta occidentale, 2- reifica da una parte l’esperto e dall’altra chi ha bisogno, la differenza tra loro è netta, 3- mantiene la centralità dell’operatore, 4- tende a mettere in atto interventi ortopedici (orthos, cioè norma, interventi normativi), 5- il tempo dell’incontro (per frequenza e durata degli incontri) risulta troppo angusto per persone abituate ad un’altra medicina/cultura, 6- il setting, è scandito da regole razionali e organizzato attorno ad una pratica verbale che è propria della nostra tradizione, 7- lo spazio risulta ristretto e asettico mentre è utile sporcarsi le mani e uscire dalla stanza di terapia, 8- la relazione terapeutica è anch’essa asettica e poco corrispondente ai sistemi di appartenenza delle altre culture, 9- la psicologia come esplicitazione della psiche, dell’inconscio (interpretazioni sui giochi psichici, diagnosi, DSM-IV, categorie e valori culture determined, rendere conscio l’inconscio, razionalità, controllo,…) appare come una pratica intellettualizzata e a volte anacronistica rispetto alle culture altre, 10- è organizzata dalla patologia anziché da metafore processuali.
Il titolo del mio articolo accenna al fatto che mi proponevo di esporre un atteggiamento etico nella prassi. Non intendevo l’etica in senso aristotelico, come la disposizione a fare le azioni giuste e ad usare il giusto ragionamento al fine di vivere una buona vita; non il “tu devi, tu non devi”, “io devo”, e così via; non l’etica come giudizio morale. Ho scelto di usare il concetto di etica come lo intende Wittgenstein che (nella proposizione 6.421) sostiene: “E’ chiaro che l’etica non può essere articolata, non può avere a che fare con premi e punizioni.” Il filosofo dimostra come le persone non rappresentino l’etica quanto invece la incorporino. Anche per von Foerster (1990), noto epistemologo e mio mentore, è chiaro che di etica non si possa parlare senza scadere nel moralismo; l’autore propone di far parlare al suo posto due “sorelle”  dell’etica, che le permettono di rimanere nascosta, creando una cornice in bella vista. Si tratta della metafisica intesa come la scelta epistemologica che ciascuno compie, cioè le lenti attraverso la quale scegliere di osservare (“la necessità di scegliere rispetto a decisioni che sono per principio indecidibili”) e la dialettica, intesa come il linguaggio e l’uso che del linguaggio si fa nel rapporto con l’altro e con la comunità. Anche nello scrivere.
Il clinico non può non sentirsi coinvolto dai valori che le spiegazioni contengono e non può non venir considerato responsabile di quanto accade negli incontri, in quanto è socialmente definito come colui/colei che è esperto del cambiamento e che per questo viene retribuito. Per il ruolo sociale e condiviso, nel nostro lavoro diventa ancor più necessario evidenziare e ampliare il discorso sull’etica. Personalmente desidero terminare questo articolo focalizzando la questione etica sui processi che favoriscono o ostacolano la costruzione/creazione di significati condivisi. Diventa imprescindibile chiedersi come sia meglio far emergere una workable reality (una realtà terapeutica su cui sia possibile intervenire), come non diventare “dottor omeostata”, come non rischiare il rischio iatrogeno, come non colludere con il sistema o con l’individuo, come lavorare senza imporre i propri valori ed evitando la cronicità.
La prima questione da cui siamo confrontati ha a che fare con la risposta alla richiesta di aiuto: chi convocare, come ridefinire il problema portato e quale percorso offrire. E’ importante che ci domandiamo anche quali sono i nostri inevitabili pregiudizi e quali idee organizzano il nostro lavoro (pregiudizi che è utile esplicitare, idee che debbono mutare nel tempo, con il rapido mutare della società): la ricorsività è intesa come la capacità di riflettere sulle proprie categorie e sulle lenti che si sono impiegate per decodificare gli eventi. Durante il processo vi è poi la necessità di una costante riflessione sul percorso compiuto e sulla progettualità conseguente. In questa fase diventa fondamentale domandarsi se le proprie azioni e proposte (ipotesi, domande) aprono o chiudono possibilità evolutive, se cioè siamo processuali oppure collusive e omeostatiche.
La consulenza sistemica è basata su un costante processo di attenzione alle retroazioni: non essendoci un principio di verità a priori ed oggettivo, le informazioni selezionate dal sistema, le mosse scelte e proposte diventano – a posteriori – quelle che per il sistema hanno validità e che, in quanto tali, vanno perseguite. Lo strumento per essere-agire-pensare in maniera etica da parte del clinico diventa quindi la riflessività intesa come la capacità del tornare indietro della propria esperienza su se stessa al fine di modificare costantemente la propria prassi.
Lavorare in ottica sistemica con gli stranieri mi ha reso consapevole della pluralità di azioni, emozioni, credenze e convinzioni presenti nel setting terapeutico; la pluralità di storie egualmente importanti e ricche mi ha obbligato a fare i conti con le scelte cliniche che opero e ad assumermi la responsabilità delle operazioni che metto in atto. Costantemente tento di praticare l’etica del prendersi cura (care) che, come ci ricorda Arlene Vetere è composta da alcuni ingredienti: attentiveness (consapevolezza dei bisogni dell’altro), responsibility (capacità di farsi carico dei problemi), competence (possibilità di offrire buoni servizi), responsiveness (capacità di accettare differenze evidenti). “Dobbiamo introdurre giustizia, altrimenti ci troviamo ad avere un problema con il potere e con una cura abusante(1996)”.

Bibliografia

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Vetere A: (2006), presentazione al Congresso Internazionale del Mediterraneo, SIPPR, Bari, Novembre.

Summary

The article presents some suggestions in order to work with migrants within an ethical stance: which is the minimal pre-requisite in order to understand each other among different cultures? Which are the questions the clinician must pose him/herself in order not to fall into the trap of undermining the differences (not knowing one doesn’t know) and risking to become “doctor homeostat”. Which are the clinical moves in order to respect and consider the other and create a dialogical process. The ethical stance of care is shown through the position one takes and the language one utilizes; it includes, as Arlene Vetere suggests, attentiveness, responsibility, competence and responsiveness.

Note

[1] Laureata in Psicologia e Filosofia, psicologa clinica, docente alla Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università di Roma “La Sapienza”, didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, ha lavorato per 10 anni in un Centro di Salute Mentale.. utelfner@telematica.it

* Romana Petri, 2005, Esecuzioni, Fazi editore, Roma

** José Saramago, 1998, Il racconto dell’isola sconosciuta, Einaudi, Torino.

[2] Un grande psichiatra degli anni ’50-60, Michele Risso, ha approfondito la nostra emigrazioni e ha descritto i frequenti sintomi collegati alla nostalgia che dall’emigrazione derivavano

[3] Con i migranti risulta importante sospendere ogni forma diagnostica occidentale per concentrarsi, come vedremo, sulla relazione nel qui e ora.

[4] Riprendo la definizione di Geertz di cultura “il complesso sistema di segni e simboli che forniscono il contesto e il significato, senza i quali concetti e comportamenti non possono essere descritti in maniera intelligente”. Dobbiamo però tenere a mente che il termine “cultura” – che molta antropologia ha tentano di rendere neutro – non lo è mai e ancor meno per la psicologia/psichiatria in quanto è impossibile mantenerlo avulso dai valori e dai pre-concetti degli stessi clinici e della comunità di riferimento.

[5] Durante la supervisione di operatori che lavorano coi migranti, alcuni medici mi hanno raccontato come incontrare pazienti stranieri fosse stata un’occasione per mettere in crisi le prassi consolidate. Era stata una occasione per riflettere sul loro ruolo professionale e mutare pratiche che erano diventate automatiche. Al momento della prescrizione di un farmaco, per esempio, si servono adesso di un cerimoniale elaborato anziché delegare ad una semplice ricetta medica la compliance del malato. Alcuni, per esempio, scrivono le dosi e il nome dell’utente sulla scatola, costruiscono una storia attorno ai poteri del farmaco e una storia che coinvolge altri utenti che hanno seguito le prescrizioni e se ne sono avvantaggiati. Altri si sono accorti di ampliare la loro gestualità e di spendersi allo scopo di far convivere i  due mondi presenti nello studio.

[6] In questa epoca la “virtù” non sta nell’essere integrati, nell’avere un centro ma nell’essere flessibili, accoglienti, tolleranti, pazienti, complessi. Le varietà dell’esperienza non devono necessariamente essere armonizzate a tutti i costi. L’estendersi del cuore e dell’immaginazione diventano più importanti dell’equilibrio, della totalità e dell’integrazione. Molti  sociologi moderni (Bauman, Zizeck tra gli altri) non propongo come valori unità e uguaglianza  ma molteplicità e differenza.

[7] Negli anni sessanta l’antropologia si è messa in discussione al punto che Hymes nell’introduzione al testo Reinventing Antropology (1974) si domanda se  andrebbe inventata di nuovo qualora non esistesse. La risposta che l’autore si da è “no”, in quanto si tratta di un retaggio di un passato coloniale e la nicchia in cui ha trovato la sua collocazione non ha più significato. E’ interessante la revisione cui le scienze sociali si sono sottoposte e la conclusione che l’autore trae circa l’impossibilità di non avere premesse etno-centriche.

[8] E’ chiaro a tutti che non esiste una osservazione neutrale e un luogo ottimale di osservazione; l’osservatore filtra la sua osservazione utilizzando delle lenti che sono personali, relazionali e profondamente culturali. Lenti che sono consapevoli e lenti “incarnate” che sono assolutamente inconsapevoli e che possono determinare il contesto.

[9] Esistono due posizioni rispetto alla patologia, una universalista (le malattie sono uguali in tutto il mondo e non è utile differenziarle) ed una relativista (ciascuna cultura si esprime in maniera diversa e serve un profondo conoscitore della specifica cultura che faccia da interprete). Personalmente scelgo una terza posizione che specifico nel testo e definisco “clinica interculturale”.

[10] Tobie Nathan riesce a creare un ponte con il mondo culturale del pazienti, utilizzando come mediatori specifiche figure appartenenti alla cultura di origine del paziente e modalità attive, coerenti con la cultura d’origine. Si tratta di una pratica differente da quella qui presentata.

[11] Hoppe (1977-78) ha trovato che una sindrome tipo alessitimia si sviluppa in persone soggette a stress molto alto. Ha infatti studiato i sopravvissuti dei campi di concentramento ed ha dimostrato una forma secondaria di alessitemia dovuta ad una separazione tra i due emisferi cerebrali a seguito della necessità di consequenzializzare il significato dell’esperienza e conseguentemente il dolore ad esso collegato.

[12] “Proprietari” è il nome che Tobie Nathan dà agli attaccamenti a forze invisibili (quali logiche di appartenenza organizzano la vita) in quanto sostiene che gli stranieri, più di noi occidentali, non sono mai soli e non sono mai semplicemente umani.

[13] Il nostro concetto di cura è differente da quello dei medici: noi pensiamo che le persone evolvono costantemente, che hanno una capacità più o meno alta di adattamento (e la capacità di adattamento dei migranti è fuori standard); il nostro obiettivo è allora quello di non interrompere il loro processo di evoluzione naturale, altrimenti rischiamo un intervento iatrogeno.

[14] Interessante come la scuola, a mio parere, operi ancora su premesse meccanicistiche, totalmente obsolete. Per esempio alcuni insegnanti credono che i ragazzi siano secchi vuoti che vadano riempiti dalle nozioni che loro passano verbalmente e spesso teorizzano che, se un ragazzo non va bene a scuola, basta che ci provi di più perché il problema sia risolto.

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