In memoria di Michael White di Stephen Madigan

By Stephen Madigan

Caro Michael,

mi hai insegnato l’arte raffinata di comporre dopo le sedute lettere terapeutiche ai clienti. Mi hai insegnato a sottolineare le loro capacità, quelle che loro danno per scontate, quelle che li hanno aiutati a sopravvivere ogni genere di abuso, ridicolo, bullismo e trauma. Le lettere dovevano focalizzarsi sulle capacità non dichiarate di sopravvivere e sottolineare la possibilità di riscrivere una storia differente. Dal 1990 ho probabilmente scritto migliaia di lettere dopo-seduta per celebrate le qualità misconosciute delle esperienze vissute dai miei clienti. Ma devo dire, scriverti oggi è la cosa più difficile che io abbia mai intrapreso.

Quando mi hanno detto che avevi avuto un improvviso attacco di cuore a San Diego e che eri morto pochi giorni dopo, tristissimo, mi sono ritrovato in lutto. Quando Imelda McCarthy mi ha telefonato per annunciarmi che eri morto, avevo appena finito di tenere un workshop sulla terapia narrativa a Dublino e stavo condividendo un boccale di birra col nostro comune amico australiano Ian Law di Adelaide. Ian aveva cenato con te dieci giorni prima a Manchester, in Inghilterra e mi ha messo a parte della tua intenzione di scrivere un nuovo libro per i bambini e del tuo crescente desiderio di viaggiare di più e di insegnare di meno. Sei morto il 4 aprile 2008, avevi 59 anni.

Quando sono tornato a Vancouver mi attendevano centinaia di mail. La maggioranza parlava della tua incredibile abilità e delle tue doti terapeutiche così originali. Il nostro campo ha proprio perso “un originale”.  Il New York Times ha scritto un necrologio lungo e molto affettuoso e migliaia di persone attorno al mondo hanno organizzato commemorazioni in città come Mosca, Gerusalemme, Città del Mexico, Gothenburg, San Paolo, Hong Kong, San Francisco, New York e Vancouver.

Ci tengo a raccontare ai terapisti che stanno leggendo che accademicamente non hai conseguito nient’altro che un B.S.W., un fatto che da una parte li renderà perplessi e dall’altra li farà pensare. Parte della crescita della tua fama è dovuta all’aver introdotto spiegazioni teoriche “post-psicologiche” all’interno del canale ufficiale della clinica. Il tuo modo di lavorare metteva in discussione quasi tutto quello che gli ultimi centocinquant’anni di psicoterapia e di terapia familiare ci avevano insegnato a credere. La terapia narrativa che hai co-inventato insieme a Eppy (David Epston) non ha niente a che fare con quelle modalità di pensiero sistemico e umanistico che si rifanno agli aspetti biologici, alle famiglie di origine, all’intrapsichico. Ancora adesso non sono sicuro che i terapeuti abbiano compreso appieno il significato di quello che andavi dicendo – e cioè a grandi linee – che il cuore pragmatico della terapia narrativa non è una pratica influenzata da teorie psicologiche.

 Tu eri originale, differente, e risolvevi i problemi proponendo un’analisi molto attenta sul genere, sulla razza, sui privilegi economici, sulle differenze culturali, sulle diverse normalità e sulla sessualità. Per te gli stili di vita problematici erano la conseguenza di certe regole relazionali, certe credenze e modalità di vita. Dalla tua posizione i problemi venivano costruiti e considerati come  pratiche che facciamo nostre sotto l’influenza della nostra posizione nell’ordine sociale dominante (credenze che emergono dalle azioni relazionali).

 In breve, hai introdotto una politica relazionale dei problemi che non consideravi in nessun modo “privatizzati”, solamente all’interno del corpo del cliente (oppure solamente nelle relazioni della famiglia o nel coinvolgimento esagerato di una madre oppure nel cervello). Per questo tipo di lavoro hai inventato il famoso assioma della terapia narrative che la persona non è il problema, il problema è il problema. Consideravi i temi con cui le persone lottano in rapporto alle intricate particolarità dei rapporti di potere che vengono co-creati, costituiti e vissuti. Hai preferito organizzare la cornice della tua prassi prendendo a prestito dalle nuove teorie dei rapporti umani derivate dall’antropologia, dalla teoria letteraria, dal post colonialismo e dal post strutturalismo.

Lo studio e la comprensione delle regole e  degli accadimenti che producevano stili di vita problematici erano quelle che davano vita alle tue domande terapeutiche molto particolari. Le domande narrative dovevano venir apprese e comprese attraverso uno stile politico e grammaticale. Facevi domande del tipo “quali regole dell’anoressia hai dovuto rompere per poter venire oggi alla seduta?”, “consideri quello che hai fatto come un passo verso o contro uno stile di vita anoressico?”, “Se dovessi continuare ad andare in questa direzione credi che ti incammineresti verso la perfezione o nella direzione opposta?”, “credi che altre ragazze della tua età vengano ingaggiate nell’anoressia attraverso la porta posteriore di un training sul perfezionismo?”. Le tue domande proponevano una collocazione sociale unica del problema che contestualizzavi all’interno del tuo molto attento studio delle politiche relazionali e culturali della nostra epoca.

Sfortunatamente molti terapeuti hanno scambiato la tua terapia narrativa come un metodo che si occupa semplicemente degli aspetti positivi nelle persone. Mentre tu consideravi la terapia in maniera diversa rispetto alle terapie basate sulle soluzioni con cui le persone ti identificavano. Sei stato anche di gran lunga la persona più lontana dalla terapia cognitivo-comportamentale!

Malgrado  tutte le tue teorie cliniche così innovative eri ancora, a tuo dire, un terapeuta celebre ma inverosimile. Mi ricordo di averti visto entrare in un incontro serale con circa 500 terapisti che partecipavano ad un convegno internazionale sulla terapia narrativa a Oaxaca in Messico, era il 2004.  Ero certo che ognuno dei partecipanti avrebbe voluto passare del tempo speciale con te. Invece di passare il tuo tempo parlando con i tuoi colleghi e seguaci hai costituito una linea diretta con le mie due figlie, Hannah e Tessa che all’epoca avevano otto anni. Voi tre, mi ricordo, ridevate e scherzavate insieme e vi siete fatti scherzi per tutta la serata; non credo tu abbia parlato quella sera con nessuno degli adulti presenti. Ho capito dall’inizio della nostra amicizia che ti trovavi molto più a tuo agio in compagnia dei bambini. Ti fidavi di loro, completamente.

Ultimamente  ho riguardato le nostre sedute videoregistrate – i filmati che abbiamo fatto insieme ad Adelaide e a Vancouver dall’inizio degli anni ’90. Io ti intervistavo e ti interrogavo sulle tue griglie teoriche e tu rispondevi coscienzioso, con una chiarezza incredibile e con una concentrazione importante. Ho deciso di condividere gli aspetti più interessanti di quelle conversazioni teoriche sul sito www.therapeuticconversations.com perché penso che sia molto importante per i terapeuti seguire la storia delle nostre idee così come si sono succedute. Penso che questa iniziativa raccoglierebbe il tuo favore.

La prima volta che ti ho sentito eravamo nella clinica di Karl Tomm a Calgary in Canada; era il 7 ottobre del 1986, si trattava del tuo secondo workshop negli Stati Uniti. A quel tempo non avevo una lira, stavo facendo il mio M.S.W. a Vancouver ma comunque sono riuscito a mettere insieme i soldi per il viaggio aereo per venirti ad ascoltare. Volevo assolutamente essere presente in quanto mi fidavo dell’intuito di Karl, della sua capacità a trovare e supportare nuove idee e personaggi nel nostro campo, per esempio aveva sponsorizzato il gruppo di milano; erano anche i giorni calmi e felici in cui il nostro campo era pieno di rischi intellettuali eccitanti e di innovazioni terapeutiche.

Al primo intervallo della mattinata stavo per conto mio da una parte facendo la mia migliore interpretazione della carta da parati floreale. Ti sei avvicinato e mi hai detto “ciao, sono Michael White” la prima cosa che mi ha colpito è stato che malgrado tu fossi molto timido ti eri comunque avvicinato tu a me – ero probabilmente la persona più giovane nella stanza e l’unica che se ne stesse in disparte (quando vado fuori ad insegnare mi ricordo sempre questo aneddoto). Siamo entrati immediatamente in una conversazione molto serrata e intellettuale sui principi dormitivi, i tipi logici e tutte le idee di Gregory Bateson. Mi sei piaciuto dal primo minuto.

Mi ricordo di averti guardato fare terapia più tardi nella giornata, la sera quando il seminario era ormai terminato. Lavoravi con un ragazzino di dieci anni che lottava con l’encopresi. Eravamo in otto dietro lo specchio unidirezionale. Tu e Karl e la famiglia eravate nella stanza di terapia.

Fin dall’inizio mi hai affascinato con le tue parole sulle  valanghe di popò, sulle vittorie sulla cacca e sulla cacca beffarda e sul dove piazzarla. Devo ammettere che ho pensato tu fossi completamente pazzo ma in quel modo timido, sciocco, intelligente eri riuscito a farti strada verso un nuovo modo di vedere il problema ed eri riuscito a costruire una relazione decente col ragazzo.

E’ strano innamorarsi di una serie di idee ma quando mi ritrovai a Vancouver non sono più riuscito a dimenticarmi quella seduta e il tuo seminario. Tu hai introdotto un ampia idea politica sulle relazioni di potere nel campo della terapia familiare e in qualche modo hai messo in comune la descrizione e la collocazione dei problemi. Mi sono a quel punto dato il difficile compito di leggere ogni cosa tu avessi scritto e tutto quello che avevi segnalato in bibliografia. Le idee risuonavano e continuano a entrare in risonanza ancora adesso.

A metà degli anni settanta i tuoi workshop sono diventati molto celermente i più ambiti nel nostro campo e più di 750 terapisti potevano partecipare ad un tuo workshop di due giorni. A questo punto  avevi fatto molti passi avanti dal primo workshop di Calgary del 1986 e i tuoi libri sulla terapia vendevano all’impazzata. Tu avevi una opinione severa e giudicante delle idée teoriche troppo complesse e hai sempre trovato il modo di semplificare le complessità del postmodernismo in un linguaggio facile e quotidiano. Credo che la chiave al tuo successo nel circuito dei seminari è stata la tua sorprendente abilità di connetterti in maniera molto intensa con ogni persona nella stanza, dal profondo di te, da quel luogo passionale e rispettoso da cui proveniva la tua terapia narrativa. Come Gregory Bateson anche tu sostenevi che ogni cosa, sempre, si riduceva ad un livello etico. Proprio per questo ritenevi che alcune idee fossero meglio di altre. Eri abbastanza certo di questa tua idea.

Non posso concludere questa lettera senza menzionare quanto io abbia apprezzato il fatto che non hai mai perso occasione per farmi sapere quanto tu fossi imperfetto, e come  facessi sbagli maldestri e quanto spesso facessi errori anche in terapia, come continuassi ad apprendere e come soffrissi anche tu per il dolore degli altri

Michael, ho perso con te un amico così caro e il mondo ha perso un incredibile pensatore e terapista. Grazie infinite per la generosità delle tue idee e del tuo affetto. Credo che a questo punto tocchi a ciascuno di coloro che si riconoscono nel modello narrativo di portare avanti le tue idee. Credo che è questo che tu vorresti.

Non ho mai immaginato di scriverti questa lettera. Grazie ancora Mikey, e felice viaggio, con amore

Stephen Madigan,

Vancouver, April 2008.

www.stephenmadigan.ca

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