Le relazioni fra culture in campo articolo di U.T. nel libro L'approccio transculturale nei Servizi Psichiatrici di Alfredo Ancora (curatore), Franco Angeli, Milano 2011

    Ogni vivente è un sistema che deve conservare sia la sua identità (organizzazione), sia il suo adattamento all’ambiente (accoppiamento strutturale) – come direbbe Maturana – per cui il rapporto tra l’individuo e il suo ambiente è ineluttabile e mediato dalle culture esplicite e tacite presenti; l’individuo è necessariamente considerato nel suo contesto socio-culturale e questo influisce sulla danza delle condizioni sociali e interpersonali in cui un problema si sviluppa e viene mantenuto nel tempo. La cultura permea il nostro lavoro sempre e comunque, non mi stancherò mai di ripeterlo, anche se lavoriamo con il nostro vicino di casa: riscontriamo problemi culturali con qualunque famiglia, con qualunque individuo, sia che provenga da una zona/cultura a noi familiare o molto distante. In una famiglia, già essere nato per primo o per ultimo implica partecipare ad un clima culturale diverso. Tutta la psicologia è culturale per definizione, in quanto ognuno abita più nicchie all’interno di una cultura dominante.
Desidero riflettere in questo intervento tenendo contemporaneamente a mente i concetti di clinica e di intercultura, per offrire una serie di spunti e sottolineare il rischio del rischio iatrogeno, quelle situazioni in cui gli operatori stessi partecipano alla creazione della patologia. Faccio molta supervisione nei Servizi e incontro operatori molto competenti che lavorano con i migranti e agiscono (giustamente) in base al loro modello di formazione, operando al meglio, pieni di vis curandi e capacità di riflettere sui loro utenti. Persone competenti e che stimo. Ugualmente cadono nella trappola di costruire interventi che risultano iatrogeni. Vorrei riflettere su questo e intendo iniziare con alcune premesse che, a mio parere, organizzano il lavoro coi migranti:

  1. Venire ad un Servizio è un modo inevitabile di colludere con la cultura ospitante, anche di costruire un attimo di tregua dalla fatica del vivere. Stare nella stanza d’aspetto con altri utenti di altre provenienze, anche autoctoni, aiuta a comprendere le regole del contesto italiano (sono contraria a servizi dedicati, sono favorevole a “figure ponte” che almeno sappiano la lingua, che possono essere anche persone portate da loro).
  2. I migranti arrivano spesso in urgenza e il rischio è quello di cadere nella loro fretta di una risposta. Un servizio che lavori solo sull’urgenza perde la sua capacità strategica, perde la possibilità di mettere in atto una rete e una riflessione comune, rischiando di diventare iatrogeno.
  3. Nella mia esperienza la maggioranza delle famiglie immigrate hanno un vissuto psichico che è differente dal nostro, sono meno psicologizzati, eccetto alcuni che provengono da nazioni con una lunga tradizione “psi”. La cultura occidentale invece è una cultura che sta abusando di tali concetti, che usa come griglie interpretative in ogni occasione. Tale linguaggio è “un’invenzione” dell’occidente e non va venduto come fosse la panacea di ogni male

    Considerando i migranti persone come tutti gli altri, reputo che sempre e comunque nel rapporto clinico sia necessario prendere in considerazione la danza tra culture emergenti. Nel caso degli utenti autoctoni le distanze tra culture sono meno esplicite e vanno fatte emergere e non date per scontate; nel  caso dei migranti queste differenze possono essere anche incommensurabili. La cultura del nostro utente, la cultura del Servizio in cui avviene l’incontro e quella delle singole persone che nel Servizio lavorano sono solo alcune tra le discrepanze da considerare. La sfida è quella di fare in modo che il processo che emerge dalla proposta interculturale sia un processo di ibridazione (che deriva dall’unione di elementi eterogenei) anziché la proposta, come capita al cosiddetto multi-culturalismo, di avvicinarsi all’Altro avendolo depauperato della sua diversità, sicuramente quella “troppo inquietante” di essere diverso da noi.

Le diverse culture in interazione

           Andiamo a considerare gli aspetti culturali che le parti in causa portano incistate dentro di sé:

          La cultura della nazione in cui viviamo è una cultura che manifesta in ogni occasione il primato scientista della medicina. Curare è considerato più importante che prendersi cura. Si tratta di un mandato istituzionale imprescindibile, organizzato da un livello produttivo (cosa fare, attività messe in atto), uno esplicativo (spiegazioni che organizzano le azioni intraprese) e – a volte, nelle situazioni migliori – un aspetto etico (le modalità estetiche con cui vengono svolte le incombenze, le forme di rispetto verso gli altri e se stessi che si mettono in pratica). Nel contesto occidentale i migranti sono considerati diversi da noi, e si tende a volerli integrare nella nostra cultura, considerata primaria, portatrice di un valore aggiunto. Così si è spinti a valutare la psicopatologia occidentale quella ufficiale e più importante e si è usi tradurre il problema presentato utilizzando le nostre categorie. C’è l’abitudine a proporre l’universalità di concetti quali psichiatria, psicoanalisi, psicoterapia, e a non accettare il relativismo culturale e le pratiche “altre” (molto utile invece risulta accettare le spiegazioni relativiste,  rispetto al processo di malattia/guarigione).
La cultura dei Servizi è in generale organizzata dall’urgenza, dalle molte incombenze che scandiscono il lavoro. L’abitudine è quella di prendere in carico la patologia del singolo (lui “malato” noi sani, virgolette che si perdono strada facendo, oggettivizzando la definizione dell’altro), cadendo spesso nella trappola dell’obbligatorietà della risposta e nel mito della cura. La fretta e la quantità di lavoro non permettono interventi di rete e attività collegiali e molto spesso gli operatori sono organizzati sul primato della psicoterapia sottovalutando gli interventi di consulenza. Si è persa così l’importantissima possibilità di scelta sul ‘come’  lavorare e sui tempi degli interventi, che non sono regolati sulle esigenze dell’altro ma dalla pianificazione interna. Nei Servizi non c’è quasi mai tempo per una riflessione collettiva sulle operazioni messe in atto, per cui si rischia spesso di intervenire in maniera ortopedica, seguendo una normatività (orto=norma) anziché promulgando l’evolutività e la singolarità delle situazioni cliniche. La necessità di considerare gli effetti pragmatici di ogni disturbo viene persa, a favore di una spiegazione causale che attribuisce alla specifica cultura il significato del sintomo, creando il mito della necessità di conoscere le culture ‘altre’, di tutto sapere e diventare antropologi o trans-culturalisti.
La cultura del singolo operatore è organizzata dalla consapevolezza di essere un agente sociale, pagato per questo, di avere cioè  la responsabilità della cura, di intervenire e assumere il controllo della situazione attraverso farmaci, azioni ad hoc e spesso psicoterapia (il mito dell’approfondimento). La necessità di sapere impone molte indagini, lo sforzo del controllo e la sensazione di inadeguatezza di fronte alla miriade di cose che non si comprendono e non si possono sapere. Coi migranti questo sentimento aumenta per cui si rischia, difensivamente, di considerare l’identità culturale come un vestito che si può togliere, esterno alla natura del soggetto anziché fondante. Il singolo operatore è poi guidato da lenti tacite, alcune delle quali consapevoli e sulle quali il soggetto può intervenire per modificarle (cosa pensa di quella cultura, cosa pensa di quel comportamento specifico,…); altri pregiudizi sono dati per scontati e quindi non vengono indagati (che le famiglie, è un esempio, debbano essere costituite di almeno tre persone, che i bambini non possano avere due madri,…). Le griglie con cui si leggono le situazioni sono spesso date una volta per tutte (durante il training formativo) e non si pensa di doverle aggiornare con i cambiamento socio-culturali in costante divenire.
La cultura dell’utente che arriva da noi come ultima spiaggia è organizzata dalla necessità di fidarsi di strutture estranee e dall’idea di noi occidentali che nel quotidiano spesso lo sfruttiamo e deprezziamo (non a caso prima non ci davano l’anima e se avevano problemi psichici tornavano a casa, ora invece vengono ai Servizi, spesso con problemi della seconda generazione che è nata in Italia e che è oberata di responsabilità). Il migrante viene in una cultura che idealizza proveniendo da una che l’occidente “deprezza” ma che ha una lunga tradizione, distante dalla nostra. Nell’operazione inevitabile di occidentalizzazione (se vuole integrarsi) crede di dover dimenticare la propria cultura e nel fare questo si indebolisce. E’ naturale che noi operatori non dobbiamo colludere con questa fantasia/operazione ma domandare, chiedere, indagare l’altrove e dar ad esso importanza. Non a caso il migrante è preso tra due alleanze (il passato e il futuro, a scapito di un pessimo presente). Se noi non prendiamo in considerazione ambedue  le culture presenti, quella scientista dell’occidente in cui si vuole integrare e quella animista del paese di provenienza che non può permettersi di abbandonare, rischiamo di appellarci solo ad una delle forze uguali e contrarie presenti e favorire le sue resistenze. Così se non teniamo conto dei tanti tempi dai quali è vissuto.
E’ chiara la necessità che queste culture dialoghino tra loro ed è evidente come dalla difficoltà di mettere insieme le diverse premesse possano derivare trappole anche molto esplicite. La struttura della narrazione proposta dagli utenti ci è estranea, altrettanto, per loro, gli stranieri siamo noi. Loro-noi, noi-loro. E’ sempre presente il rischio dell’opposizione, cioè della lotta per differenziarsi e tenere separati ambiti e punti di vista; così il rischio della seduzione reciproca, intesa come capacità di annullare le differenze. L’incontro può emergere soltanto da una attenta analisi della domanda e dalla condivisione del contesto che ci vede assieme, quello clinico della consulenza e dell’esplicitazione del bisogno. Noi possiamo solo favorire la riflessione tra i diversi punti di vista, la ricerca di punti di contatto, nel rispetto delle differenze (Telfener, Ancora 2000)
Si tratta di porre attenzione al percorso che ha condotto alla elaborazione della domanda, in una sorta di analisi della costruzione dei significati e dell’interconnessione degli eventi. Non ci si sofferma quindi sulla cultura originaria del paziente (difficilmente si accede ad essa in quanto è una struttura invisibile e tacita di cui gli utenti fruiscono ma che rimane spesso inconsapevole anche a loro), ci si attarda sulle storie che vengono narrate, sulla stratificazione della domanda e sulla progettualità co-costruita insieme per dipanarla. Il loro “altrove” si può indagare attraverso le domande che concernono le loro spiegazioni sui sintomi e sulle pratiche che avrebbero messo in atto in patria per risolvere il problema con cui si presentano a noi.

 

Attenzione alla relazionalità, ovvero, quali modalità di intervento?

      Intendo in questo paragrafo tentare di riassumere alcune pratiche cliniche necessarie e non sufficienti ad una corretta operatività clinico-culturale, sapendo che comunque questa lista è in progress e quindi una foto del momento attuale (in costante evoluzione) e che le operazioni che metterò in evidenza non sono che alcune delle possibili operazioni del complesso lavoro con i migranti. Si tratta di mosse per evitare che le situazioni portate diventino iatrogene e che i casi si cronicizzino nel tempo. Ricordiamocelo: ci si occupa troppo dell’ intrapsichico e troppo poco del contesto.
Di seguito le operazioni suggerite:

  • L’allargamento del contesto operativo, la complessificazione a più figure di operatori (figure professionali diverse – medici di diverse specializzazioni, infermieri, assistenti sociali, mediatori culturali, psicologi – più età, gender diversi, provenienze variegate). L’apertura anche a personaggi significativi portati in seduta dagli utenti stessi. Contaminare il setting è utile perché solo dalla contaminazione emerge la necessaria coralità/complessità/socialità; solo la collaborazione tra più figure professionali all’interno di uno stesso o di più Servizi sembra permettere l’esistenza e il funzionamento di una struttura complessa, di un servizio integrato[1]. Il setting contaminato e composto da più voci è poi più simile all’esperienza che i migranti avrebbero fatto in patria, dove è spesso il collegio dei vecchi e dei saggi che prende in mano una situazione problematica.
  • Il passaggio da una tecnica prescrittiva (l’incontro al fine di creare un cambiamento) all’ascolto, inteso come la capacità di riconoscere e apprezzare l’importanza della narrazione portata. Lo straniero in questo senso può essere il portatore di narrazioni straordinarie anche se può evocare diffidenza, in quanto veicola valori diversi dai nostri, mettendoci in contatto con l’alterità. Lo straniero può essere anche una persona che si trova nella posizione adatta per osservare e far emergere ciò che noi – da sempre partecipanti alla ‘nostra’ cultura – diamo per scontato. Ascolto quindi non da una posizione esterna, privilegiata, ma partecipato, empatico e interattivo. Curioso del punto di vista dell’altro. Le storie che si narrano permettono di esprimere potenzialità esistenziali più o meno esplicite, di liberarsi da posizioni periferiche assunte rispetto agli eventi della propria vita; a noi clinici consentono il ruolo di ‘correttori di bozze’, di suggeritori di nuove trame narrative.
  • Rimanere ad un primo livello di intervento[2] anziché proporre come visita specialistica quel processo tutto occidentale definito ‘psicoterapia’. La vera sfida di un operatore sistemico che lavori coi migranti è di rimanere a quel livello in cui il Servizio in toto può diventare contenitore e curativo, in cui gli operatori si possono avvicendare.  Si tratta di un livello non specialistico che può essere messo in atto anche di fronte ad una motivazione al cambiamento non necessariamente esplicitata, di fronte ad una domanda vaga, la cui definizione diventa l’obiettivo del lavoro comune.
  • La condivisione esplicita dei valori, delle regole del contesto e anche del disorientamento. Se ogni comunicazione è una comunicazione interculturale rischiamo che tutto sia letto come ‘cultura’ e quindi di stemperare il concetto, generalizzandolo e rendendo tutto uguale, privo di significato. La messa in comune delle regole permette di analizzare la domanda nel qui e ora del contesto presente e di avere un luogo di mediazione in cui mettersi d’accordo sui termini, sui bisogni e sulle azioni comuni. Ci si accorda sulla cultura in campo, soprattutto, uno spazio transizionale sul quale trovare consenso. L’intesa sull’uso culturale dei segni e delle tematiche emerse, considerate comunicazioni con infiniti significati contemporanei, permette di domandare agli utenti di spiegare ciò che dicono rispetto alla cultura cui appartengono, non potendo prevedere una conoscenza “antropologica” di tutti i diversi paesi da cui provengono.
  • La ricerca dei legami di affiliazione (con gli antenati, con la famiglia, con i valori della società di origine e con quella occidentale in cui vivono attualmente), in modo di dare più cornici, tra tante possibili, alla sintomatologia portata (tra queste è importante appellarsi alla cosiddetta eziologia tradizionale/autoctona). Chi altro è un interlocutore mentale per l’uno o per l’altro? Importante può essere non solo lavorare sulle relazioni presenti ma anche sui “fantasmi” benigni o meno che organizzano le premesse e i comportamenti. Il concetto di “proprietario” derivato dall’etnopsichiatria è, per esempio, un concetto che uso frequentemente: quali idee incarnate ci fanno da proprietari e ci organizzano, più o meno tacitamente, le premesse del vivere? Chi presentifichiamo come persona/elemento/presenza altra da sé se ci viene in mente un divieto o un pensiero particolare?

     Ho supervisionato una equipe di operatori di un Servizio di Salute Mentale rispetto al caso di un ragazzo argentino di 22 anni, adottato. Alvaro viene inviato al Servizio (CSM) della città in cui abita  a seguito di un episodio confusivo (trovato a vagare per le strade dopo essere scappato da casa da alcuni giorni, si ritrova al Pronto Soccorso, condottovi da una pattuglia stradale). La madre lo porta al Servizio su indicazione del medico del pronto soccorso in cui è stato ricoverato e il ragazzo viene subito preso in carico da una psicologa della struttura. Anziché fare una attenta analisi della domanda, anziché coinvolgere almeno per un primo incontro tutte le persone con cui Alvaro abita (in ottica sistemica è il più complesso che spiega il più semplice, è la complessità del contesto che aiuta a decodificare gli eventi che accadono), viene riconosciuta l’urgenza della richiesta e il ragazzo viene coinvolto in una psicoterapia una volta ogni quindici giorni. Quando, poco dopo, i suoi sintomi “peggiorano” (mancanza totale di sonno, momenti d’ansia generalizzata, agitazione psicomotoria) all’intervento individuale verrà affiancata una consulenza familiare nello stesso Servizio. Presto si troverà nuovamente ospedalizzato (in stato confusionale dopo quattro giorni che non dormiva e girovagava attorno a casa, agitato) e stabilirà una relazione privilegiata con uno psichiatra del Diagnosi e Cura (questa volta un uomo, particolare forse importante).
          Alvaro avrà quattro operatori che ruotano attorno a lui e alla sua famiglia – uno psichiatra dell’Ospedale e tre operatori del CSM – più altri operatori in questo caso periferici quali infermieri, assistenti sociali con cui entra in contatto. Nessuno che condivida un’ipotesi con lui e la famiglia su cosa stia succedendo, nessuno che abbia dato significato agli eventi più tragici accaduti nell’ultimo periodo. Tutti intervengono singolarmente e al meglio, cercando di ridefinire/normalizzare (ciascuno a modo proprio, neppure una telefonata intercorre tra gli operatori).

       La domanda in supervisione è frutto della consapevolezza che il comportamento sintomatico di Alvaro peggiora costantemente e si rischia la cronicizzazione. E’ chiaro come sia necessario avere un’ipotesi condivisa dai diversi contesti in cui il ragazzo si muove (individuale, terapia familiare e servizio di diagnosi e cura, ma anche posto di lavoro, famiglia nucleare ed estesa), chiara ed esplicita, organizzata in una narrazione comune e condivisa; è chiaro che la relazione singola con ciascun operatore porta al rischio della parcellizzazione e della tacita messa a confronto tra modelli di intervento (ciascuno desidera essere “giustamente” bravo e incisivo. Si riscontra una escalation degli interventi e una risposta all’emergenza che amplifica il problema). Si  rischia  l’aumento della confusione (esattamente il sintomo del ragazzo), senza che vengano condivise ipotesi plausibili circa ciò che sta avvenendo e le prospettive per un futuro possibile.
Diventa fondamentale, a mio parere, mettere in atto una riflessione comune:

  • circa la comprensione del contesto, degli obiettivi comuni, delle aspettative, delle forze/risorse in campo, dei tentativi già fatti, delle diverse definizioni del problema e delle sue possibili soluzioni;
  • sul potere in generale e sui diversi giochi legati ad esso: il “potere” della pattuglia stradale, del consulente, degli altri operatori coinvolti, l’isolamento sociale/potere di Alvaro rispetto al suo sistema affettivo, attraverso il sintomo. Che significa per lui essere adottato, si sente straniero in casa propria oppure anche i genitori si sentono stranieri in quanto hanno stretto un’alleanza con l’Argentina, durante il processo di adozione?
  • sui sistemi di supporto esistenti: qual è l’integrazione nella comunità di riferimento, qual è la progettualità di Alvaro e quella dei genitori rispetto a lui?; quali le risorse presenti, su chi si può contare?
  • sul problema presentato stesso e sulle diverse interpretazioni collegate ad esso; sui valori e sulle differenze valoriali che emergono dalle diverse persone in campo;
  • sulla collusione che si viene a formare tra i pattern che Alvaro vive in casa sua e quelli che vengono messi in atto nella relazione con i Servizi e tra gli operatori.

       Credo che anche a posteriori sia possibile proporre una coordinazione tra le diverse figure coinvolte, e questo faccio in supervisione. E’ chiaro che fa una grande differenza se un Servizio nasce complesso in quanto è strutturato ab intio a rete oppure se si pensa che diventi complesso perché lo stesso paziente è visto da più operatori (e in questo caso può sicuramente diventare complicato!) Il rischio, in questo secondo caso, è che il paziente designato ‘agisca’ la distanza tra gli operatori, che la utilizzi inconsapevolmente per triangolarli e mettersi in una posizione di immobilità; che il paziente venga utilizzato dagli operatori stessi per dare a se stessi un senso di unitarietà. Ipotizzo che il costante peggioramento del ragazzo faccia parte dello stesso “gioco relazionale” che Alvaro vive in famiglia, in cui si sente “non visto” sia dal padre che dalla madre: la risonanza tra pattern relazionali è sempre interessante!
Potrebbe essere utile in un caso del genere la figura del case manager, figura necessaria per non cadere nella trappola di rispondere solo alle urgenze e per poter costruire una strategia di intervento coordinata, che non diventi né iatrogena né collusiva. Si tratta di un operatore super partes che faccia da ponte tra famiglia e operatori, proponga una costante riflessione sulle premesse e sulle relazioni in atto, che si trovi a disposizione di tutti coloro che sono coinvolti nella definizione del problema e che offra alcune spiegazioni sovra-ordinate, alcune ipotesi esplicative ai membri del sistema osservato (naturalmente costruite con gli altri operatori). Si tratta di una figura capace di mentalizzare quello che sta succedendo e di coordinare e dare senso ai diversi interventi affinché rientrino in un quadro coerente e siano organizzati da un’ipotesi forte, condivisa nel sistema tra tutti. Solo istituire un livello di osservazione che tenga conto di quanto avviene nei diversi contesti terapeutici permette di rispettare la multifattorialità e la complessità della situazione, senza appiattire le spiegazioni o escludere alcuni partecipanti. Istituire una figura in grado di coordinare una progettualità condivisa permette inoltre di  costruire una strategia terapeutica – la strategizzazione è una delle operazioni che impediscono l’omeostasi – e che questa sia evolutiva. Alcuni possono sostenere che sia una figura “mitologica” all’interno del Servizio Pubblico di questi tempi, per di più investita di poteri taumaturgici. Nella mia esperienza molti Servizi prevedono almeno sulla carta questa funzione che può essere espletata da uno dei curanti che si assume questo ulteriore compito. Se poi si trattasse di un operatore sistemico avremmo una maggiore garanzia che possa tollerare e gestire la complessità.
Vorrei sottolineare un ultimo aspetto fondamentale: il rispetto.Il riconoscimento passa  anche attraverso il rispetto dell’altro e la consapevolezza delle differenze in campo, collegate all’esperienza di emarginazione, alla sofferenza del quotidiano, e non solo. Per fare questo è necessario costruire il proprio ruolo e la propria autorevolezza attraverso la considerazione dell’altro che implica atteggiamenti di curiosità, collaborazione e condivisione. Questa collaborazione, come molti sostengono nel nostro ambito, si espleta attraverso la costruzione di una narrazione condivisa. Rispetto è condivisione e trasparenza; vuol dire evitare la condiscendenza a favore di sensibilità ed empatia; è non pensare che si possa cambiare una situazione difficile; è accompagnare l’altro anziché volerlo cambiare; vuol dire abbandonare una posizione di expertise, per assumerne una di curiosità (gli utenti stessi rappresentano una risorsa culturale per il clinico durante l’intero processo). Rispetto è la possibilità di trovare una forma di reciprocità e di pariteticità; è permettere alla vita di entrare nel contesto terapeutico: condividere una melodia, un ricordo, un racconto, un vestito, la moda….
Non si tratta, a mio parere, di intervenire favorendo una mediazione tra culture, non si tratta di cercare di raggiungere un punto di vista comune né di negoziare tra mappe diverse; non si tratta di tradurre le mappe degli stranieri nelle nostre, neppure di negoziare tra le loro e le nostre. Non pretendere di dare risposte esaustive, ma utilizzare le domande come stimolo per entrare in un dialogo, in un dominio comune, in una danza che sia possibilmente condivisa.

Conclusioni

     La psicologia clinica applicata alle situazioni ‘estreme’ rischia ancora di più, a mio parere, il pericolo dell’autoreferenzialità di cui hanno parlato alcuni autori (Renzo Carli tra gli altri, in maniera appassionata), giustamente preoccupati di una ricorsività immediata e scarsamente pensata tra modello formativo d’elezione, griglia di lettura e offerta di intervento. Un circuito autoreferente per cui l’ottica utilizzata per capire il problema porta l’operatore a ‘mettere da parte’ il problema stesso, nel tentativo di ricondurlo a chiavi di lettura conosciute.
Le diverse situazioni concrete che ogni clinico si trova ad affrontare  impongono invece prassi operative diverse. Mai come nelle situazioni di crisi che dobbiamo fronteggiare oggi (migranti, abusi, violenze, scelte su adozioni, affidamenti …) è utile tracciare percorsi sempre nuovi, viottoli (anziché strade maestre) che si costruiscono in un processo fatto di tentativi, condivisioni e correzioni del percorso.
Dobbiamo creare dei Servizi che siano competenti sul piano culturale, che non significa assolutamente che abbiano dei servizi dedicati, ma che possano far fronte alla complessità culturale, che partano complessi non che lo diventino in itinere, sommando gli interventi. Forse sarebbe anche utile impiegare dei mediatori culturali, non tanto come ‘esperti’ della cultura dell’utente (quando mai si può diventare esperti di una cultura?) quanto come  figure importanti perché aiutano a mettere in comune punti di vista alternativi e a complessificare le interpretazioni, a sporcare il contesto aggiungendo punti di vista e polifonia.
Questo processo implica una sensibilità alle differenze culturali e ai bias del proprio approccio e delle proprie lenti; la necessità di lavorare col concetto di cultura ben in mente; il rispetto dei bisogni culturali dell’altro; la curiosità per il sapere e le acquisizioni dell’altro e per quelle che emergono dall’incontro; la disponibilità a farsi perturbare. Parafrasando Bateson potremmo dire che imparare il contesto della cura è una questione che va discussa nel rapporto esterno tra due creature, e il rapporto è sempre il prodotto di una doppia descrizione.
E’ finita l’epoca in cui potevamo nasconderci dietro la burocratizzazione dei Servizi e attendere i cambiamenti dall’alto. Personalmente credo che ciascuno di noi operatori è chiamato in prima persona a dare il proprio contributo perché gli interventi siano evolutivi e non patologizzanti. Questo passa attraverso alcune operazioni cui ho accennato ma si tratta di operazioni necessarie e non sufficienti. L’atteggiamento personale, la curiosità, il rispetto ma pure l’irriverenza diventano ingredienti altrettanto fondamentali. E’ chiaro a tutti che non si combatte l’emarginazione con una assistenza emarginante.

Note

[1] E’ possibile lavorare con situazioni ad alta definizione culturale in uno studio privato? Solamente di fronte ad una richiesta ben definita e per un periodo breve di consulenza. E’ invece molto utile la compresenza di più figure professionali, personalità, ruoli e  culture, quali troviamo nei Servizi, che identificano e concretizzano la complessità della domanda. Il lavoro nei contesti pubblici sembra garantire un intervento a più livelli, messo in atto da figure diverse nel Servizio, che sfruttano appunto le loro differenze e un  collegamento costante e informato con il contesto sociale. Intervenire da un’ottica complessa, culturale e sistemica significa inoltre perdere l’asetticità di un contesto pulito (la stanza come luogo di cura) per sporcarsi le mani e scendere in campo: accompagnare, andare a trovare, fare telefonate, cercare collegamenti…

[2] Il I° livello di intervento è dipendente dal contesto, è un intervento di rete, una consulenza aspecifica nel senso che si fa un intervento che non è di psicoterapia e il committente può essere diverso dall’utente.

Bibliografia

Ancora A.(2006), I costruttori di trappole del vento, Franco Angeli, Milano.

Telfener U. (1998), Viaggio nello sciamanesimo, il punto di vista di una psicoterapeuta, Pluriverso, 1.

Telfener U.(2000), La psicologia clinica come pratica culturale, Pluriverso, N°1.

Telfener U.(2008), Il lavoro con i migranti, una introduzione alla polifonia, in Atti del Congresso Internazionale del Mediterraneo, Sippr Bari 2006

Telfener U. (2010), Il lavoro con i migranti in Italia: per una pratica etica basata sul rispetto, Terapia Familiare, N°92.

Telfener U., Ancora A. (2000), La consulenza con i migranti, Psicobiettivo, N°1, anno XX.

Telfener U., Casadio L. (2003), Sistemica, voci e percorsi nella complessità, Bollati Boringhieri, Torino.

Quali le operazioni necessarie e non sufficienti nel lavoro coi migranti
  1. L’analisi della domanda

Analisi delle modalità di invio
Analisi aspettative
Connotazione positiva delle mosse fatte fin ora
Introduzione del tempo: allora, ora, futuro, tempo della prima crisi
Ampliamento  della domanda di tipo medico-farmacologico in socio-sanitaria

  1. Creare contesti evolutivi e interconnessioni possibili: aprire alle possibilità anziché lavorare sui vincoli; sporcare il setting invitando le persone significative per i nostri utenti
  2. Creare un setting in cui si possano fare esperienze concrete, affrontare problemi concreti per accedere al generico: fare e far fare, usare altro oltre al verbale (gli oggetti transizionali)
  3. Il rispetto. Il contesto deve essere marcato in modo da rassicurare l’utente che non è un pesante fardello da sbrigare. Cordialità, minuziosa osservanza degli appuntamenti, ascolto attento, sono elementi non abbastanza ovvi per un inizio corretto del lavoro
    • Affiliare l’utente, definire il contesto come collaborativo
    • Attenzione ai diversi registri comunicativi
    • Proporre un clinico decentralizzato, che sappia tirarsi fuori e rendere gli altri gli esperti; un clinico che accetti la posizione di sapere di non sapere
    • Pensare sempre che ciascun individuo e famiglia ha le proprie risorse interne, si tratta di creare contesti in cui sia possibile farle emergere, far affiorare l’expertise delle persone implicate anziché focalizzare sulla patologia, che a volte risulta totalmente estranea alle società “tradizionali”;
    • Esplicitazioni su genere, razza, religione, ruoli e aspettative da parte del contesto di cura

 

 

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